(Atenulfo, Atinolfo, Adinolfi, Adenolfo, Adenulfo, Antinolfi). - Nacque da Landenolfo, gastaldo di Teano, e fu nipote di Landolfo il Vecchio, gastaldo di Capua (815-843), che era stato l'iniziatore di una numerosa dinastia, ricca di molte propaggini, di gastaldi e conti di Capua e poi di principi di Capua-Benevento. Dopo la morte dello zio Landolfo, vescovo e conte di Capua (862-879), il quale, legandosi a Ludovico II prima e successivamente a Giovanni VIII, aveva salvato l'integrità della contea attribuendole una funzione preminente fra i piccoli stati della Campania, i nipoti di lui, che egli era riuscito a tenere a freno, si combatterono accanitamente per la successione (879-887) in un periodo aggrovigliato nel quale, a fianco dei vari contendenti, intervennero tutti gli stati della Campania, papi, imperatori, saraceni, guideschi di Spoleto, bizantini, in un oscuro labirinto di leghe e controleghe. Appunto nel volgersi di questi anni Atenolfo, gastaldo di Calvi, esce dall'ombra e, con politica avveduta, sì adopera a trarre la contea di Capua da questa torbida fase della sua vita. Egli, in un primo tempo, si lascia attirare dal duca-vescovo Atanasio, di Napoli, il quale per qualche tempo è arbitro delle vicende politiche della Campania e da lui ottiene "ut adiuvaretur singulariter fieri comes in Capua". Con un ardito colpo di mano, il 7 gennaio dell'887, riesce a disfarsi dei fratelli e dei cugini e a porre fine alle contese domestiche. Il nuovo conte di Capua non si arrestò nella ascesa e si rivolse contro l'alleato di ieri, il duca Atanasio di Napoli, che occupava la "Liburia", la fertile zona da tempo contesa fra Napoli e Capua. Battuto Atanasio nella battaglia di S. Carzio sulle rive del Clanio (888), nella zona aversana, Atenolfo riuscì a imporre il suo primato sui principati longobardi di Benevento e Salermo, sugli altri stati campani, e a difendersi dall'espansione bizantina. La potenza di Atenolfo contrasta con la decadenza degli altri principati longobardi di Salerno è infatti entrata nell'orbita bizantina, mentre a Benevento le continue lotte di palazzo hanno impedito l'affermazione di una dinastia, finché subisce la dominazione diretta dei Bizantini (891-94) e poi quella di Guido IV di Spoleto (895-97). Il nuovo principe Radelchi II, imposto dalla sorella, l'imperatrice Ageltrude (aprile 897), con le sue rappresaglie contro le più potenti casate beneventane si privò del naturale sostegno per mantenere il suo potere: fu così che molti esuli trovarono accoglienza presso Atenolfo e lo sollecitarono a impadronirsi di Benevento. Il colpo fu attuato nel gennaio del 900 e Atenolfo fu acclamato principe in S. Sofia di Benevento. Si realizzava così, sotto una sola dinastia, che faceva capo ad Atenolfo, l'unità Capua-Benevento, la quale si sarebbe mantenuta per quasi tutto il secolo X. L'ascesa di Atenolfo non fu però senza contrasti, provocati dai bizantini che tentarono di riprendere la città: uno dei figli di Atenolfo cadde vittima di un loro colpo di mano. Più grave fu la congiura che si organizzò contro Atenolfo intorno al vescovo di Benevento, Pietro: ma anche di essa il nuovo principe ebbe ragione e Pietro fu costretto ad esulare a Salerno. Nei dieci anni del suo principato l'azione più notevole di Atenolfo fu la lotta contro i Saraceni del Garigliano che egli attaccò, con il solo aiuto degli Amalfitani e senza successo, nel 903. Si diede poi a preparare una seconda e più decisiva spedizione, mando una forte coalizione di città della Campania e sollecitando l'aiuto dei bizantini, nei confronti dei quali aveva modificato il suo precedente atteggiamento. Venne a morte nel 910, quando il figlio Landolfo I, che si era associato nel principato, rientrava da Costantinopoli, dove era stato inviato dal padre per ottenere la partecipazione imperiale nella impresa contro la colonia del Garigliano. Ad Atenolfo Eugenio Vulgario, poeta vissuto fra l'887 e il 928, dedicò un carme amebeo, nel quale, con astrusi artifici retorici, ne celebrava le virtù. Nel 910 successe al padre assieme al fratello Atenolfo II, sconfiggendo i Saraceni nella Battaglia del Garigliano (915). In seguito, tentò di estendere i propri domini anche in Puglia, senza, però, riuscirci. Morì nel 943.Dalla moglie Gemma, figlia di Atanasio II Duca di Napoli, ebbe due figli, Atenolfo e Landolfo, che gli succedette.

Atenolfo II o Atenulfo è stato un Principe Longobardo, Principe di Benevento e di Capua dal 910 al 940, Co-Reggente col fratello maggiore Landolfo I.
Atenolfo II era il fratello minore del Principe Landolfo I di Benevento, che lo ha associato al Governo nel Giugno 910 o 911 (come il loro padre, Atenolfo I, aveva associato Landolfo un decennio prima). Nel 909 Landolfo si recato a Costantinopoli, come sopra detto, per ricevere i titoli di Anthypatos e Patrikios e Atenolfo rimase a Benevento.
Atenolfo II prese parte alla Battaglia del Garigliano nel 915 e alla Campagna contro i Bizantini nel 921 in Puglia, arrivando addirittura ad Ascoli Satriano. Ha continuato la Guerra con Bisanzio, anche chiamando Mercenari Magiari guidati da un Capo di nome Szovard (Italianizzato come Salardo). Nel 929, col fratello Landolfo I°, con Guaimario II di Salerno e con Teobaldo di Spoleto, invase la Puglia e la Calabria di nuovo. Questa volta, tutti hanno avuto successo e la vecchia Alleanza si sciolse.
Atenolfo II morì nel 940. Lasciò due figli: Landolfo, che conquistò Salerno nel 973, e Atenolfo, Gastaldo (Funzionario) di Aquino.

Landolfo II, detto il Rosso, è stato Principe Longobardo di Benevento e Principe di Capua (come Landolfo IV) dal 939, quando suo padre, Atenolfo II lo associò al Governo, fino alla morte.

Atenolfo III detto "Summucula" di Benevento, noto anche come Atenolfo di Capua e come Atenolfo di Carinola 943 circa, fu Principe Co-Reggente di Benevento e di Capua dal 936 al 943. Atenolfo III era figlio del Principe di Benevento. Fu associato come Reggente di Capua e Benevento dal padre il 12 Gennaio 936. Atenolfo III aveva sposato il 925 Rotilde una figlia di Guaimario Principe di Salerno da cui ebbe due figli secondo il Chronicon Salernitanum. Fu anche in contese con il Monastero di Montecassino. E' considerato il capostipite della famiglia d'Aquino.

Atenolfo IV d'Aquino rivolse la sua attività soprattutto al rafforzamento della sua contea, a danno sia di Montecassino sia dei principi di Capua. Quando nel 996 l'abate cassinese Mansone fu accecato, l'Atenolfo approfittò della debolezza del suo successore Giovanni II per assalire e distruggere il castello di Roccasecca che Mansone aveva fatto costruire nel territorio di Aquino. In un secondo momento Roccasecca fu ricostruita, e rimase in possesso degli Atenolfo. per parecchi secoli. Sui rapporti tra l'Atenolfo ed i principi di Capua è molto significativo un episodio narrato in un manoscritto della Chronaca di Leone Marsicano. Il marchese di Spoleto Ademario, creato principe di Capua da Ottone III nel 999, si recò in Aquino per affermare la propria sovranità anche in quella contea, ma l'Atenolfo non volle riceverlo e si rinchiuse nel castello. In una scaramuccia egli riuscì a fare prigioniero il principe, che venne quindi ad un accordo con lui, attribuendogli il titolo di conte. L'Atenolfo quindi sarebbe stato il primo conte della sua famiglia, ma in realtà tale titolo era già stato portato da suo padre Atenolfo II. E' probabile che in questa occasione vi sia stato da parte di Ademario un nuovo riconoscimento del titolo comitale, in cambio del riconoscimento, da parte dell'Atenolfo, della sovranità capuana; è però certo che nel 1003 la sovranità del successore di Ademario, Landolfo V, era riconosciuta in Aquino. Le ultime notizie sull'Atenolfo risalgono probabilmente al 1018, se egli deve essere identificato come uno degli "Aquinenses comites", che sotto l'abate Atenolfo (1011-1022) compirono numerose e continue scorrerie contro Montecassino, per cui l'abate fu costretto ad assoldare alcuni mercenari normanni che, dopo la battaglia di Canne del 1018, erano rimasti nell'Italia meridionale. Essi furono stabiliti a Pignataro, e di là riuscirono a respingere gli assalti degli Aquino.

ATENOLFO V. - Figlio di Atenolfo IV conte d'Aquino e di Pontecorvo, della famiglia dei conti d'Aquino. Fedele sostenitore ed alleato di Pandolfo IV principe di Capua, ne sposò, in data non precisata, la figlia Maria, mentre suo fratello Landone si univa con un'altra figliola del principe di cui ci è ignoto il nome. Quando, nel 1038-1039, Corrado II scese nell'Italia meridionale, e, alleatosi con Guaimario di Salerno, rovinò la potenza di Pandolfo, anche la fortuna di ATENOLFO subì un grave tracollo. Mentre il suocero si chiudeva nella fortezza di Sant'Agata e poi fuggiva a Costantinopoli (1039), ATENOLFO V, nell'aprile del 1039, veniva catturato "cum aliis non paucis" (Leone Marsicano, p. 677) da Laidolfo conte di Teano e imprigionato. I suoi familiari, guidati dal fratello Landone, tentarono allora invano di assalire Teano per liberarlo; fermati da Richerio, nuovo abate di Montecassino, riuscirono, con un colpo di sorpresa, a catturare costui il 10 maggio del 1039 e a trascinarlo prigioniero in Aquino, rilasciandolo soltanto quando Guaimario, "non multo post" (ibid., p. 677), ebbe liberato Atenolfo. Subito dopo, comunque, i due fratelli, fecero pubblica ammenda della grave offesa recata al monastero cassinese e restituirono ai monaci la località di Sant'Angelo di cui s'erano antecedentemente appropriati. Ma, evidentemente, si trattava soltanto di una tregua. Quando, infatti, nel 1041 Pandolfo di Capua, fuggito da Costantinopoli, dove era stato imprigionato dall'imperatore, tornò in Italia e rioccupò alcune località intorno a Caserta, mirando a riconquistare il principato sfuggitogli, i conti d'Aquino furono pronti a rinnovare la precedente alleanza. Con lui era rientrato in Italia anche il greco Basilio che Pandolfo aveva posto nel 1036 a capo dell'abbazia cassinese e che era stato sostituito nel 1038 da Richerio per volontà di Corrado II. Con l'aiuto dei conti d'Aquino, Basilio tentò allora di rioccupare l'abbazia; ma l'intervento di truppe normanne prontamente inviate da Guaimarlo stroncò il tentativo, costringendo alla fuga l'intruso; né pare che i conti Atenolfo/d'Aquino abbiano saputo offrirgli un consistente aìuto militare. Gli anni immediatamente seguenti furono quelli della massima potenza di Guainiario. Ma ben presto fra il principe di Salerno e i suoi alleati normanni sorsero contrasti sempre più gravi, che compromisero la stabilità politica della Campania. Fra il 1039 e il 1044-1045 (data della sua morte: cfr. Fedele, Il ducato, pp. 66-67) era stato duca di Gaeta, oltre che conte d'Aversa, il normanno Rainulfo, cui successe Aisclittino suo nipote, morto però quasi subito. Allora un grave contrasto scoppiò fra Guaimario e i vari capi Normanni, che, contro le intenzioni del principe, sostenevano la candidatura di Rodolfo Trincanotte e lo crearono conte d'Aversa. Di tale contrasto approfittarono in Gaeta gli avversari di Guaimario, molto probabilmente sostenuti da Pandolfo di Capua, i quali, "ob invidiam Guaimarii" (Leone Marsicano, p. 680), fecero duca della città, fra il maggio e il luglio del 1045, Atenolfo. Questa elezione rappresentava un grave colpo per Guaimario, che, raccolto immediatamente un esercito, lo inviò contro Gaeta. ATENOLFO accettò la battaglia in campo aperto, ma fu battuto, catturato e condotto per la seconda volta prigioniero presso Guaimario. Contrariamente ad ogni previsione, Pandolfa non mosse in soccorso del genero e si rifiutò perfino di rilasciare, in cambio della libertà di costui, una sorella dei conti di Teano che tratteneva prigioniera; approfittando invece della situazione favorevole, assalì le terre del monastero cassinese, ponendo l'abate Richerio in gravi difficoltà. Il dispetto per l'indifferenza mostrata da Pandolfo nei suoi riguardi, ma, ancor più, il convincimento - maturato certo durante la prigionia - che ormai soltanto schierandosi dalla parte di Guainiario avrebbe potuto riottenere libertà e ducato, indussero Atenolfo ad un repentino rovesciamento di alleanze. Appreso che Pandolfo aveva assalito i possedimenti cassinesi, egli promise al principe di Salerno di divenire, in cambio della libertà, il tutore sicuro dei monaci di S.Benedetto e il suo fedele vassallo. Guaimario, certo anche per l'intervento di Bartolomeo abate di Grottaferrata, che, sollecitato dai conti Atenolfo/d'Aquino, chiedeva in quei giorni a Salerno la liberazione dell'illustre prigioniero, accettò l'offerta di ATENOLFO e lo liberò nel corso dello stesso 1045. Il conte Atenolfo/d'Aquino, cui Guaimario, in cambio di un solenne giuramento di pace e fedeltà prestato ai monaci e a lui stesso, aveva restituito il ducato di Gaeta, si recò a Montecassino e ricaccìò indietro Pandolfo con la sola minaccia di un esercito prontamente raccolto. Molto probabilmente fu in questa occasione che Emilia, figlia di ATENOLFO, sposò Landolfa figlio di Guaimario, cementando la nuova alleanza con un matrimonio politico che durava ancora nel 1092. Per gli anni immediatamente seguenti si hanno scarse notizie dell'attività di ATENOLFO, che nel 1047 circa, in qualità di "comes et dux" di Gaeta, presiedette un giudicato nel quale i conti di Traetto si impegnarono a non rivendicare ulteriormente nel futuro alcuni possedimenti del monastero cassinese, e che mantenne indisturbato il suo ducato sia durante la discesa di Enrico III nel 1047, sia dopo la morte del suocero Pandolfo di Capua nel 1049 (19 febbraio), con il quale non pare si fosse nel frattempo riconciliato. Certo è che egli, come tutti i maggiori e minori signori longobardí dell'ltalia meridionale, doveva vedere nel rafforzamento della potenza normanna il più grave pericolo per il suo dominio. Cosicché non è strano vederlo, il 10 giugno 1053, far parte dell'eterogeneo esercito che in quel giorno si raccoglieva in Sala intorno a Leone IX, intento a muovere contro i Normanni per realizzare la sua sfortunata crociata. Otto giorni dopo, ATENOLFO fu certo attore della battaglia di Civitate, che vide i Normanni clamorosamente vincitori e il pontefice prigioniero. Ma il duca di Gaeta ne uscì illeso, tanto che il 26 luglio seguente già poteva, nella sua città, presiedere ad un giudicato. Dopo il fallimento del tentativo antinormanno di Leone IX, ATENOLFO. continuò nella sua politica di alleanza con Roma e con Montecassino: nell'aprile del 1057 si recò a Roma, ove Vittore II aveva radunato un concilio, accompagnandovi l'abate cassinese Pietro, accusato di essere stato eletto in modo non regolare. E fu proprio il mutato orientamento della politica cassinese e romana intervenuto nel frattempo, rispettivamente con il nuovo abate Desiderio (1059) e con Niccolò II papa, a indurre in questo periodo ATENOLFO a rivedere drasticamente il suo atteggiamento antinormanno e a cercare una nuova piattaforma d'amicizia con Riccardo conte d'Aversa. Fra il duca di Gaeta e il conte normanno venne infatti (nel 1058) concordato un matrimonio che doveva vedere uniti uno dei figli del primo con una figliola del secondo; ma essendo morto, prima della celebrazione delle nozze, il figlio di ATENOLFO, e avendo questi negato a Riccardo il pagamento della "quartula", il conte d'Aversa assediò Aquino e ne devastò le campagne, non desistendo dalle ostilità se non quando l'abate di Montecassino, Desiderio, convinse ATENOLFO a versare la somma richiesta (1058-1059). Subito dopo, forse nel 1059, il duca di Gaeta aiutò i Cassinesi a respingere le ostilità degli abitanti di una località del comitato di Traetto, collaborando alla costruzione di un castello difensivo sul monte Perano. Ma l'amicizia di Desiderio non bastava a salvaguardare sufficientemente il debole ducato Gaetano dalla prepotente politica d'espansione perseguita da Riccardo, il quale, riconosciuto nel 1059 da Niccolò principe di Capua, investì del dominio di Aquino e di Gaeta il genero Guglielmo di Montreuil, quasi a far capire a ATENOLFO che i giorni del suo ducato erano contati. Comunque, almeno per il momento, altre cure impedirono al conte di Aversa di realizzare i suoi progetti per quanto riguardava il dominio di ATENOLFO, sì che ATENOLFO moriva il 2 febbr. 1062 senza aver visto gli odiati Normanni insediarsi nella sua Gaeta. Ad ATENOLFO Alfano di Salerno dedicò un magniloquente epitaffio in cui lo qualificava "magnanimus, sapiens, fortis, pius, impiger, acer", mentre i monaci cassinesi, annotandone la scomparsa nel loro obituario, lo ricordavano come "dux et monachus", sottolineandone, nella memoria della sua ascrizione alla confraternita benedettina, i legami che l'avevano unito per gran parte della vita all'abbazia.

Atenolfo VI Duca di Gaeta 1062/1064, fu ribelle contro Riccardo I° Principe di Capua che lo bandì e gli confiscò Pontecorvo e Aquino il 12-7-1066; forse finì prigioniero del medesimo o giustiziato. Come detto ad Atenolfo V successe l'assai meno fortunato figlio Atenolfo VI, che, minorenne, ebbe per tutrice la madre Maria. Costei, costituita il 1° giugno dello stesso 1062 un'alleanza con i minori conti longobardi della zona e unitasi a Guglielmo di Montreuil, scopertosi nemico di Riccardo, resistette ai Normanno per oltre un anno. Nel giugno del 1063, però, Gaeta cadde finalmente nelle, mani dell'ormai potentissimo Riccardo I°, che lasciò al governo del ducato, accanto a suo figlio Giordano, l'ancora minorenne Atenolfo, mentre Maria si rifugiava a Pontecorvo. Questo precario condominio, tuttavia, durò poco più di un anno, perché l'ultimo documento in cui compaia il nome dello sfortunato figlio di ATENOLFO, cui la morte, con ogni probabilità, risparmiò un'umiliante destituzione, è dell'ottobre 1064. Va sottolineato che da tempi antichissimi gli Adenolfo/d'Aquino furono conti, infatti già dal 970 circa si hanno notizie di un Adenolfo, conte di Aquino e Pontecorvo, mentre un altro Adenolfo d'Aquino fu duca di Gaeta nel 1038.

Adenolfo VII Conte di Atina, fu compreso nella confisca del 1065, dona ½ del castello di Piedimonte al monastero di Montecassino nel 1067. Nel 1118 dona ancora parte dei suoi beni sempre al monastero di Montecassino

Adenolfo VIII Conte di Atina, Vicalbo e Posta nel 1169 è costretto a restituire a Re Ruggero I nel 6-1141 alcuni suoi Feudi ma anche Signore di Monte San Giovanni.

Adenolfo II 1210 Ottolina dell'Isola Esponente di un'antica famiglia feudale longobarda, acerrima nemica degli Altavilla, fedelissima degli Svevi fin dalla prima discesa di Enrico VI° nell'Italia meridionale. Figlio di Adenolfo "de Albeto" e di Ottolina dell'Isola. Nipote di "Landulfus de Atenolfo", che tenne dapprima in servitio dal conte Gionata di Carinola i feudi di Alvito, Campoli Appennino, e la quarta parte di Aquino; fu poi feudatario in capite dei feudi di Settefrati e dell'ottava parte di Aquino. Nel 1201 non ha raggiunto la maggiore età, perché non è tra i domini de Atenolfo che ottengono la restituzione dei possessi da Gualtiero di Brienne. Sposa Margherita di Ugento ( febbraio 1250). Nel 1208 partecipa all'assalto di Sora che si è ribellata a Federico II. Nel novembre 1210, rinchiuso in Aquino con i suoi consanguinei, si oppone alle truppe di Ottone IV comandate da Diopoldo, duca di Spoleto. Il 18 marzo 1212 accoglie a Gaeta il giovane Federico, che si reca in Germania. L'anno seguente è in contrasto con il comune di Benvenuto per il possesso di un castello. In occasione dell'incoronazione romana di Federico, il 22 novembre 1220, è investito della contea di Acerra, che era già appartenuta alla sua famiglia, nonché dei feudi di Montella e di Nusco. Il 1o gennaio 1221 su-bentra a Landolfo "de Atenolfo" nella carica di capitano e maestro giustiziere di Apulia e di Terra di Lavoro. Grava di eccessive tasse la città di Benevento, provocando l'intervento da Onorio III. Intraprende la guerra contro Tommaso da Celano, l'unico conte del Regno assente all'incoronazione dell'imperatore. Dopo aver conquistato Boiano, si reca con Federico ad assediare Roccamandolfi, dove si è rifugiata la contessa di Molise Giuditta. Poiché la fortezza risulta imprendibile, l'imperatore si allontana continua da solo la campagna militare. Si reca in Marsia e assedia nel corso del 1221 le fortezze di Celano, Ovindoli e Castro. Nel febbraio del 1222 continua con Federico l'assedio di Roccamandolfi costringendo alla resa la contessa, che ottiene salva la vita insieme a tutto il suo seguito. In questo anno accompagna Federico all'incontro di Veroli con Onorio III. Nella primavera del 1223 segue Federico in Marsia in una nuova campagna contro il conte di Molise. È poi a Ferentino, dove l'imperatore ha un secondo incontro con Onorio III per la crociata e per definire il suo matrimonio con Iolanda di Brienne. Partito l'imperatore, collabora con Enrico di Morra, nuovo maestro giustiziere, alla definizione delle clausole del trattato di resa del conte di Celano e ne è tra i garanti per la parte imperiale. Nel marzo 1225 è a Palermo, dove sottoscrive un diploma di Federico. Nel giugno è a Foggia, dove sottoscrive un altro diploma. Negli stessi giorni, dicendosi comes Acerrarum et dominus Nusci, fa una concessione alla badessa del monastero di S. Salvatore del Goleto. È molto probabile che sia vicino a Federico anche nelle settimane successive: alla fine di luglio in occasione della sottoscrizione del trattato di San Germano; all'inizio di ottobre quando sbarca a Brindisi la promessa sposa Iolanda; il 9 novembre quando Federico celebra il suo matrimonio. Nel gennaio 1226 è al seguito dell'imperatore e sottoscrive un diploma in favore dell'Ordine teutonico. Nel marzo è a Rimini con l'imperatore, che per la Pasqua ha convocato suo figlio Enrico e i principi tedeschi a una dieta in Cremona . La ribellione delle città dell'Italia centrosettentrionale costringe la corte imperiale a trascorrere la Pasqua a Rimini, dove nel palazzo dell'Arengo l'imperatore promulga la Bolla d'oro, atto di nascita dello stato autonomo dell'Ordine teutonico in Prussia (v. Teutonici). Nel luglio intraprende con Federico il viaggio di ritorno in Sicilia, dopo un breve soggiorno a Pisa. Nel marzo 1227 il nuovo pontefice Gregorio IX mostra subito di non essere debole verso Federico come il suo predecessore. La reazione dei fedelissimi esponenti della famiglia "de Aquino" è immediata. Atenolfo in Monte S. Giovanni Campano perseguitano il preposto di una dipendenza della Badia di Casamare, attirandosi l'ira del papa, che il 16 aprile 1227 ordina loro di presentarsi in Curia, pena la scomunica. All'inizio dell'estate, mentre Federico è impegnato nei preparativi per la partenza per la crociata, Atenolfo è inviato, con Berardo di Castagna, al Cairo presso il sultano d'Egitto per condurre le trattative relative al programmato intervento dell'imperatore in Palestina. In qualità di vicario imperiale, opera "moult bien", secondo una fonte francese contemporanea (Scandone, 1905-1909, tav. XII). In una controversia sorta tra i Templari e i saraceni, dà ragione a questi ultimi, ordina la confisca dei beni dei Templari, tra cui vi sono anche un centinaio di schiavi che l'Ordine tiene nelle sue case di Sicilia e di Calabria, che sono liberati per ordine dell'imperatore. Un messo avverte Federico, che trascorre la Pasqua del 1228 a Barletta, della morte del sultano di Damasco. Nel settembre 1228, subito dopo lo sbarco di Federico in Palestina, si reca, con Balione di Sidone, a Nablus per informare al-K?mil, sultano d'Egitto, dell'arrivo dell'imperatore. Nel febbraio 1229, da S. Giovanni d'Acri, comunica all'imperatore le cattive notizie che giungono dall'Italia: Giovanni di Brienne e il legato pontificio Pelagio Albano hanno attraversato il confine del Regno a capo dei clavisignati e hanno invaso l'Abruzzo e la Campania. Tra la fine di marzo e gli inizi di aprile si reca a Baghdad per far ratificare al califfo il trattato concluso il 18 febbraio tra Federico e al-K?mil. Nello stesso mese di aprile sottoscrive tre diplomi imperiali, e si dice 'balio del regno gerosolimitano'. Da una lettera di Geroldo (v.), patriarca di Gerusalemme, si evince che Federico decide dapprima di lasciare Tommaso Atenolfo in Oriente, poi pensa bene di non privarsi del suo prezioso aiuto. Sbarcato a Brindisi il 10 giugno 1229, Tommaso Atenolfo è subito inviato a Capua, in aiuto dei filoimperiali capeggiati da Pandolfo e Roberto d'Aquino. Nell'ottobre è inviato come paciere a Sora. Al rifiuto della città di sottomettersi, le truppe imperiali la distruggono. È tra i protagonisti delle trattative che portano Federico a firmare con il papa la pace di San Germano (v.) il 28 agosto 1230. Infatti, in giugno accompagna l'imperatore a San Germano; è delegato poi a sanzionare con giuramento i patti stabiliti per la resa di Gaeta e di S. Agata, e per la pace accordata alle terre della Chiesa nel ducato e nella Marca; il 23 luglio conferma, come plenipotenziario, i patti stabiliti tra il papa e l'imperatore, per la pace ai tedeschi, toscani e regnicoli che hanno partecipato alla guerra. Nell'agosto sottoscrive un diploma imperiale a Ceprano. Segue l'imperatore a Melfi, dove, nell'estate 1231, dopo la proclamazione delle Costituzioni, sottoscrive due diplomi. Nel dicembre 1231 accompagna Federico, che si reca a Ravenna senza l'esercito, per risolvere in una dieta le questioni tedesche e lombarde. A Ravenna sottoscrive due diplomi imperiali. Nel gennaio 1232 ritorna nel Regno col titolo di capitano generale. Nell'aprile raccoglie a Melfi un forte contingente di truppe e lo invia ad Antrodoco contro Bertoldo di Spoleto. Nel luglio 1232 è nominato podestà di Cremona e contribuisce a far concludere la pace della città con Piacenza. Nel maggio 1232 Federico, regolate le questioni tedesche nella dieta di Cividale, ritorna nel Regno dopo una assenza di otto mesi. Tommaso Atenolfo lo raggiunge, con il gran giustiziere Enrico di Morra, a Melfi. Resta al seguito dell'imperatore nei mesi successivi. Nell'agosto 1234 è a Rieti. Dalla primavera del 1235 a quella del 1237 Federico si reca per la seconda volta in Germania. Tommaso Atenolfo resta nel Regno e fa parte del collegio di familiari imperiali che reggono il governo. Nel luglio 1236 fa una donazione alla Ss. Trinità di Venosa. È incaricato, unitamente al gran giustiziere, di fare riunire un solenne concilio a Melfi. Nel dicembre del 1236 raggiunge l'imperatore in Germania, per lasciarlo all'inizio della primavera dell'anno seguente. L'11 novembre 1237 Federico ottiene la grande vittoria di Cortenuova (v.). Mentre l'imperatore è in Lombardia, Tommaso Atenolfo è incaricato dell'amministrazione del Regno, unitamente agli arcivescovi di Palermo e di Capua e al vescovo di Ravello. Nell'aprile 1238 raggiunge l'imperatore in Lombardia e partecipa prima alla grande assemblea di Verona, poi all'assedio di Brescia. Nel novembre è a Roma, presso il pontefice, come membro di una delegazione costituita anche dagli arcivescovi di Messina e di Palermo e da Ruggero Porcastrella. Insieme a quest'ultimo, nel dicembre, ritorna nel Regno. Nel 1239 gli vengono affidati i prigionieri lombardi Bonifacio Pusterla, Oldrano Staccabaroccio e il conte Goffredo de Corte. Nel giugno 1239 è nuovamente al seguito dell'imperatore a Verona, nel luglio a Bologna, poi a Pizzighettone, nel novembre e nel dicembre a Cremona. Alla fine del 1239 è al seguito dell'imperatore, che ritorna nel Regno. Il 28 da Pisa Tommaso Atenolfo invia degli ordini in nome del suo signore. Il 26 gennaio 1240 è mallevadore per Federico nei confronti di alcuni mercanti romani, creditori di 400 once. Il 10 febbraio e il 15 marzo, rispettivamente da Cocaione e da Viterbo, invia due ordini imperiali. Alla fine del mese di marzo è incaricato da Federico di inviare al secreto di Messina una certa quantità "de pulvere pro destructione luporum": la storiografia ritiene che Tommaso Atenolfo avesse imparato la fabbricazione della polvere da sparo in Siria. Il 1o aprile 1240 Federico gli invia una lettera in cui lo informa che, desiderando mostrare ai prigionieri lombardi le sue domus (v.) e i suoi loca solaciorum (v.), ha disposto che sia assegnato il castello di Deliceto come dimora per sua moglie, la contessa Margherita. Segue l'imperatore nel tentativo di invasione dello Stato pontificio. Nel maggio è a Orte, poi a Capua; nel luglio ad Ascoli; nell'agosto a Fermo. Mentre sono in corso le trattative tra il neoeletto Gran Maestro dell'Ordine teutonico, Corrado di Turingia, e papa Gregorio IX, Tommaso Atenolfo segue Federico in Romagna, alla conquista di Ravenna, poi all'assedio di Faenza. Nel giugno 1241 è ancora con l'imperatore a Spoleto. Nel giugno 1242 ritorna in Palestina come 'baiulo del Regno gerosolimitano'. Mentre è in Terrasanta gli muore l'unico figlio che gli è rimasto, Adenolfo (III), impegnato in una missione in Ungheria. Federico lo consola, inviandogli una lettera in cui lo rassicura che farà convergere sui suoi nipoti ? il valletto Tommaso II (v.), il rimatore Iacopo, Tommasa ? i meriti che lo stesso Tommaso Atenolfo e suo figlio hanno acquistato al suo servizio. Vi è infine notizia (Scandone, 1905-1909) di una sua missione nel 1241, per conto dell'imperatore, presso re Beda di Ungheria, sottoposto alla pressione dei mongoli, durante la quale, o al più nel corso del viaggio di ritorno, egli sarebbe morto; notizia incerta ma in parte confermata da un diploma del 6 giugno 1270 in cui il conte Tommaso Atenolfo viene obbligato a versare alla Casa dell'Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme in Capua quanto da lui promesso per i benefici ricevuti dall'Ordine dal conte Tommaso, suo nonno, e soprattutto da suo padre mentre si trovava in Ungheria come legato dell'imperatore (Del Giudice, 1869, II, 1, pp. 60 s.). Ma sulla ignota data della morte varie e discordanti sono state le ipotesi. Del tutto improbabile quella legata alla battaglia per la presa di Vittoria (18 febbraio 1248), identificando in lui l'Aquino morto con Taddeo da Sessa e altri millecinquecento imperiali (Kantorowicz, 1976, pp. 658 e 696), anche perché in un documento del 1243 risulta già morto (Acta Imperii, I, nr. 947, p. 718). Forse invece si riferisce a lui la lettera di condoglianze indirizzata, nel dicembre del 1240 (?), da Federico a Tommaso di Acerra in cui lo assicura che riverserà sui due suoi nipoti quanto il loro padre, morto mentre serviva l'imperatore, aveva meritato (Pier della Vigna, 1740, IV, 6, pp. 11-14). Del resto non risulta mai più attestato in documenti posteriori al 22 marzo 1240. Di sicuro non fu mai conte di Acerra proprio perché premorto al padre, cui successe infatti il nipote, primogenito di Atenolfo, anch'egli di nome Tommaso, al quale Federico, sempre legato alla famiglia, diede in moglie Margherita, sua figlia illegittima; il secondogenito, Giacomo, fece parte della Scuola poetica siciliana. Per decenni fedeli agli Svevi, dopo la sconfitta di Manfredi passarono invece dalla parte degli Angiò. E' da precisare che Aquino, Tommaso d'Aquino/Atenolfo. - Figlio di Atenolfo e nipote di Tommaso (I) di Acerra, nacque probabilmente nel 1226. La posizione del nonno presso Federico II gli rese facile l'accesso lasciando erede della contea di Acerra e di tutti gli altri suoi beni il figlio Atenolfo. Atenolfo/Tommaso I d'Aquino (1200-1251) fu conte di Acerra e venne nominato da re Federico II di Svevia capitano e giustiziere della Terra di Lavoro; nel 1232 fu viceré di Sicilia e poi podestà di Cremona. Grazie ai suoi numerosi viaggi in Oriente, imparò ad usare la polvere da sparo che importò in Italia in grande quantità. Adenolfo (m. 1242), fu anche Capitano Generale delle truppe imperiali in Lombardia. Come già anticipato, l'esponente di maggior prestigio di questa famiglia, ma del suo ramo cadetto, fu San Tommaso d'Aquino, Dottore della Chiesa.

Adenolfo IV 3° Conte d'Acerra dal 1273; Signore di Ariola e Cassine e del castello di Vicalno il 2-9-1273, Regio Commissario atto alla riscossione delle imposte nelle regioni di Aversa e Capua dal 27-12-1283, Signore di Stornaria dal 6-2-1283 e di Marigliano e Ugento il 27-2-1284 (feudi confiscati sul finire del 1284 e in parte restituiti l'8-11-1292); fu confiscato ancora il 27-9-1293 e imprigionato; Cristoforo Atenolfo d'Aquino 1298, cavaliere di re Carlo I d'Angiò, nel 1294 fu insignito del titolo di conte di Ascoli; sposò Margherita di Sangro ed ottenne a partire dal 1283, numerosi feudi dislocati fra le odierne regioni di Abruzzo, Lazio e Campania, Calabria, in particolare a Valva, Scanno, Pescasseroli, Civitella, Castel di Sangro e Roccasecca, aggiungendo poi Introdacqua, Raiano, Celenza e Sant'Angelo e Sicilia . Margherita d'Aquino 1328 fu l'amante di re Roberto I di Napoli. Giovanni Boccaccio, durante il suo soggiorno a Napoli, si innamorò di Maria Atenolfo d'Aquino, figlia naturale di re Roberto, che poi immortalò nel suo Decamerone col nome di Fiammetta. Regio Consigliere di Carlo I d'Angiò. Adinolfo d'Azzia (de Aczia), da Capua 1301.

Adinolfo da Mineo Partecipò, insieme a Giovanni da Procida e allo zio Alaimo da Lentini, alla rivolta dei Vespri del 1282, dato che la cittadina di Mineo subiva ingiustizie e mal governo sotto la dominazione angioina, che occupò la città nel 1266. Per placare gli animi intervenne Pietro III d'Aragona che tentò una riconciliazione. Agli aragonesi i ribelli offrirono la corona siciliana, in cambio dell'aiuto offerto per scacciare gli Angioini. Per la sua opera, il popolo di Mineo tributò ad Adinolfo una porta chiamata appunto Porta Adinolfo, presente ancora oggi.

Adenolfo V Napoli 8-1321, Signore di Albeto, Campoli, San Donato e Settefrati. Ante 10-6-1311 Maria Pipino, figlia di Giovanni Conte di Lucera e di Sibilla di Bisceglie 1319. Margherita Atenolfo d'Aquino 1328 fu l'amante di re Roberto I di Napoli.

Adenolfo VI 1322 ucciso nel crollo del castello di Albeto 1349), Signore di Albeto, Campoli, San Donato e Settefrati. 1347 una Cantelmo uccisa col marito nel castello di Albeto 1349). Sposato intorno al 1337 con Elisabetta Sanseverino, figlia di Giacomo 1° Conte di Tricarico e Chiaromonte e di Margherita di Chiaromonte, già vedova di Adinolfo d'Aquino. Giovanna Atenolfo d'Aquino 1343, fu contessa di Mileto e Terranova, sposò Ruggiero Sanseverino; fu sepolta nella cappella gentilizia della sua famiglia. Sotto il baldacchino vi è il sepolcro cinquecentesco di Gaspare Atenolfo d'Aquino, figlio di Landolfo e di Colella della Marra.

Atenolfo Giovanni da Procida (Proxida o Proxita),- Nato verso il 1372, probabilmente nel Regno di Valenza, discendeva dall'omonimo cancelliere dei Regni di Sicilia e d'Aragona, suo trisavolo. Suo padre, Olfo (Adenolfo o Nolfo) figlio di Giovanni iunior, a sua volta figlio di Tommaso, nel gennaio 1338 già si era trasferito dal regno napoletano a quello di Pietro IV° d'Aragona, il quale lo nominò governatore di Cagliari, quindi di Maiorca, ambasciatore in Sicilia nel 1362, capitano delle galee che nel 1370 riaccompagnarono Urbano V° ad Avignone. Nulla si sa invece della madre. Durante lo scisma d'Occidente ottenne, nel 1385, da Clemente VII, pontefice dell'obbedienza avignonese, canonicato e arcidiaconato della Chiesa di Elne. Nel settembre del 1387, quindicenne, fu raccomandato al papa dal re Giovanni I d'Aragona per un canonicato nella chiesa di Lerida. Era ancora studente di diritto canonico nel giugno del 1389, quando fu difeso dal re perché l'arcidiaconato di Elne gli era conteso da un ecclesiastico straniero, in contrasto con il privilegio ricevuto al momento dell'adesione aragonese al pontefice. Nel luglio del 1390 fu raccomandato a Clemente VII dal re e dalla regina Violante, perché avesse la precedenza nel conseguimento dei due canonicati, che il pontefice gli aveva riservato a Valenza e a Maiorca. I suoi tre fratelli, cavalieri del Regno di Valenza, Olfo (che ne fu il governatore), Tommaso e Gilberto, parteciparono nel marzo del 1392 alla spedizione condotta in Sicilia dal fratello del re, duca Martino, mentre Giovanni, divenuto doctor decretorum, fu nominato rector studii dell'universitas di Perpignano e canonico della cattedrale di Maiorca, con dispense di Clemente VII e del successore Benedetto XIII, perché non ancora sacerdote, il 12 ottobre 1394. Nel marzo del 1398 era rettore nella diocesi di Elne della chiesa parrocchiale di Santa Maria del Mare, quando Martino, divenuto re d'Aragona, cercò di fargli avere l'arcidiaconato di Lerida, tenuto dal cardinale Nicolò Brancaccio, d'obbedienza avignonese. Il re ne lodò la particolare applicazione allo studium licterarum, paragonandolo ad Anassagora, nonostante la giovane età. In maggio Martino progettò di destinarlo a ricoprire un'importante diocesi siciliana e lo fece indicare dal camerlengo Berengario Cruilles a Benedetto XIII in una terna di candidati per l'arcidiocesi di Monreale, richiesta che fu ripetuta nel luglio 1399. La scelta di nominarlo arcivescovo di Palermo, dopo la morte, il 13 ottobre 1399, di Asberto de Vilamarí e la designazione da parte del re di Sicilia del palermitano Francesco Vitali, fu concordata dal re d'Aragona con l'arcivescovo di Messina Filippo Crispo, il quale si trovava alla corte aragonese in veste di nunzio apostolico di Bonifacio IX, il pontefice dell'obbedienza romana, con il quale faceva da intermediario nella doppia veste di ambasciatore aragonese. Il 17 gennaio 1400 Martino il Vecchio ordinò da Saragozza al figlio di non prendere provvedimenti, evitare ogni elezione dell'arcivescovo palermitano e impedire a chiunque di prendere possesso della diocesi in attesa di sue disposizioni. Il 14 maggio il re d'Aragona comunicò la nomina al re di Sicilia, suo figlio, e al capitolo della cattedrale di Palermo. Procida, il quale ancora una decina di giorni prima si trovava alla Curia di Benedetto XIII per conto del re d'Aragona, per prendere possesso dell'arcidiocesi e riscuoterne i redditi nominò tre procuratori, tra i quali un siciliano, Rainaldo da Sciacca, che chiese al capitolo di eleggere anche come vicario, in sostituzione di uno di quelli già eletti, Simone Rosso. La nomina del nuovo vicario fu annullata in agosto dal re di Sicilia, il quale non ottenne però il ripensamento dei canonici che lo avevano eletto, i quali resistettero fino alla fine di ottobre. A metà giugno del 1400 Martino re di Sicilia era stato costretto ad assicurare che il nuovo arcivescovo sarebbe stato consacrato da Bonifacio IX, in conformità con le promesse fatte ai palermitani dopo la loro resa nel 1397, e che della questione si sarebbe interessato a Roma l'arcivescovo Crispo, al suo ritorno dalla Spagna. Dalla Sicilia fu invece chiesta al re d'Aragona la nomina di un palermitano come arcivescovo, il provinciale dei domenicani fra Giuliano Milito. A metà luglio Martino re d'Aragona ordinò al secreto di Palermo di consegnare redditi e amministrazione dei beni dell'arcidiocesi al mercator barcellonese che era uno dei procuratori di Atenolfo Giovanni da Procida e continuò a insistere fino al marzo del 1401, ordinando al re di Sicilia di perfezionare la nomina dell'arcivescovo, di non toccare i redditi episcopali e di annullare concessioni di appalti e ogni altro contratto, perché Atenolfo da Procida non poteva essere considerato assente dalla sede episcopale, se si trovava al servizio della Corona. Dall'inizio dell'anno si era programmata la sua partecipazione con Crispo all'ambasceria aragonese destinata a Bonifacio IX. Poi fu invece deciso che gli ambasciatori andassero prima in Sicilia, per conferire con re Martino il Giovane e riceverne le direttive. Il 30 agosto Martino il Vecchio informò Benedetto XIII di avere fatto dare in commenda la Chiesa palermitana a Giovanni Adinolfo da Procida, il quale non aveva voluto intitolarsi arcivescovo e aveva chiesto di essere autorizzato dal papa alla riscossione dei redditi e allo scambio dei benefici e che lo dispensasse dalla scomunica, nella quale sarebbe incorso per la frequenza con gli scismatici palermitani. Ancora nell'agosto del 1403 il fratello Gilberto ne sollecitava le richieste presso la Curia avignonese. La partenza di Giovanni per l'isola, in compagnia dei fratelli, di qualche ecclesiastico e di un certo numero di uomini armati, prevista inizialmente per la primavera del 1400 e a lungo annunciata, sembrò imminente nel settembre del 1401. Benché fosse stato eletto dal capitolo della cattedrale di Palermo, il re d'Aragona dispose che non ricevesse più il titolo di arcivescovo eletto, ma solo quello di amministratore dell'arcidiocesi, perché evidentemente le trattative con Bonifacio IX per la sua consacrazione come arcivescovo non erano andate in porto. Comunicò la nuova nomina ai canonici e alla città il 30 settembre, e rinnovò la disposizione di revocare ogni assegnazione che il re di Sicilia aveva fatto sulle rendite episcopali, perché altrimenti i redditi rimasti sarebbero stati per lui insufficienti. Il 26 maggio 1402 era ormai in Sicilia, dove fu accompagnato da ecclesiastici catalani e fu considerato ufficialmente come arcivescovo eletto di Palermo. Verso l'aprile del 1403 il re di Sicilia chiese a Bonifacio IX che divenisse vescovo di Catania, irritando vivamente il re d'Aragona, il quale ne ritenne responsabili i consiglieri del figlio, perché a Roma erano avvenute delle trattative a sua insaputa. Approfittando dell'assenza dall'isola del cardinale di obbedienza avignonese Pietro Serra, che governava la diocesi, Giovanni Adinolfo da Procida si installò nel palazzo episcopale di Catania, ma il 27 aprile Martino il Vecchio lo avvertì minacciosamente che, quand'anche fosse stato provvisto mille volte da Bonifacio IX, non avrebbe consentito a nessuno di togliere la diocesi al cardinale, suo stretto collaboratore e consigliere, e gli ingiunse di sgombrare immediatamente dal palazzo. In ottobre il re d'Aragona chiese tuttavia per lui dei benefici a Benedetto XIII. Rimase a Palermo, dove nel marzo del 1404 ebbe un conflitto con l'arcidiacono Andrea Argento, il quale lo accusò di avergli usurpato la giurisdizione, mentre nel luglio del 1406 compì un'operazione finanziaria con un genovese. Fu pure accusato di approfittare dell'imposizione della decima triennale per tassare il clero oltre misura, senza peraltro versare quanto dalla diocesi era dovuto al pontefice dell'obbedienza romana, Gregorio XII, sicché nel giugno del 1408 il re di Sicilia ordinò un'inchiesta. Anche il monastero benedettino di San Martino delle Scale lamentò che non ne rispettasse privilegi e immunità. Nel luglio del 1407 Benedetto XIII gli inviò da Marsiglia delle istruzioni orali attraverso un prete di Barcellona. Il 18 agosto ebbe il perdono del papa dell'obbedienza avignonese per la sua elezione a Palermo, considerata de facto, ma non de iure, perché compiuta da parte di un capitolo scismatico. Per giustificarsi, aveva affermato - falsamente - di non avere consentito all'elezione e di non averne curato la conferma e di avere assunto soltanto l'amministrazione de facto, percependo i redditi. Benedetto XIII gli ingiunse la rinuncia all'amministrazione della diocesi, ma gli donò i redditi già percepiti a Palermo e lo riconobbe come arcidiacono di Elne. Il 23 febbraio 1408, un giorno prima che sul presupposto della vacanza della sede episcopale (era morto da tempo l'ultimo arcivescovo d'obbedienza romana, Gilforte Riccobono) i canonici del capitolo della cattedrale affiancati dal capitano della città dichiarassero di assumere l'amministrazione dei beni della loro Chiesa, affidò al vicario e ad alcuni mercanti il recupero di beni e crediti, nominando un amministratore e realizzando una serie di atti di disposizione di beni episcopali, una vendita di legname il 24 stesso, alcune vendite di acque e di frumento nella seconda metà di marzo. Il 25 marzo per far valere i suoi diritti come arcivescovo eletto, malgrado l'impegno assunto con papa Benedetto a rinunciare all'episcopato, protestò contro i canonici che lo avevano esautorato e donò al fratello Adinolfo Tommaso una annualità dei redditi episcopali. Preparandosi forse a lasciare il Regno di Sicilia, concluse fino alla fine di maggio una serie di operazioni finanziarie, con contratti di cambio marittimo e trasferimento di somme di denaro a Pisa, Firenze, Genova e Barcellona. Lamentando l'insufficienza dei propri benefici ecclesiastici, benché fosse divenuto decano della Chiesa di Valenza, ottenne da Benedetto XIII, che pare avesse raggiunto in Liguria, l'11 giugno 1408 di poter godere ancora per un biennio dei redditi palermitani, in considerazione della vacanza della sede e dell'impossibilità di nominarvi un arcivescovo, perché la popolazione era scismatica. Il 26 maggio del 1409 da Cagliari fu autorizzato da Martino il Giovane a lasciare il Regno di Sicilia, per andare eventualmente al Concilio di Pisa, ovvero presso il collegio dei cardinali, e all'esportazione di due muli, probabilmente a quello scopo. Morto il re in Sardegna, il 28 settembre era comunque a Catania, alla corte della Vicaria, la regina Bianca, la quale lo incaricò di tornare a Palermo, per intervenire sulla violazione del divieto di imposizione di nuove gabelle, affinché le somme percepite dalla città fossero versate al tesoriere del Regno, fosse disarmata la galea che i palermitani avevano armato con quel denaro e fosse dimezzato il numero degli ambasciatori nominati per andare alla corte aragonese. Mantenne ancora per qualche tempo il titolo di arcivescovo palermitano, con il quale figura in un documento del 30 marzo 1410 del Papato della linea avignonese. Il 2 giugno di quell'anno ottenne da Benedetto XIII altri cinque mesi di proroga della concessione sui redditi episcopali. L'11 giugno a Barcellona gli fu conferita dal papa aragonese, come notaio apostolico, una prepositura vacante nella Chiesa di Valenza. Privato ormai del titolo episcopale, restò definitivamente nella Curia di Benedetto XIII, nella quale ricoprì l'ufficio di protonotaro apostolico. A Palermo la regina Bianca nel giugno del 1411 designò in sua sostituzione il provinciale dei frati minori fra Giovanni da Termini, ma poi gli preferì Ubertino de Marinis. Nel 1415 i suoi redditi annui raggiungevano i 1500 fiorini aragonesi. Cancellata ogni precedente macchia di infedeltà, era ormai considerato un familiaris antiquus del papa, il quale ne ricordò a titolo di merito la presenza ad Avignone, durante l'assedio che il papa vi aveva sofferto. Prese l'abito regolare dei Cavalieri di San Giacomo della Spada, in attesa di ricevere una precettoria dell'ordine. Non sappiamo quando sia morto. Un documento del 1455 del pontificato di Callisto III ci informa che un miles valenciano defunto, del suo stesso nome, aveva lasciato alla cattedrale di Palermo 44.000 soldi per una custodia corporis Christi e che all'esecuzione del legato era tenuto il figlio Nicolò Adinolfo. Alaimo e i due suoi nipoti erano ancora nelle carceri. Domando la libertà al Re Alfonso promettendogli diecimila onze d'oro che avrebbe tratti dalla Sicilia mandando il Nipote Adinolfo. Alfonso ne fu contento. Adinolfo usci dal carcere e giunse in Majorca per andare in Sicilia . Il re Giacomo che fu avvisato mando in Catalogna Beltrando Cannella . Passando per Majorca arresto Adinolfo e lo porto con se. A nome del re Giacomo domando ad Alaimo ad Alfonso che fu prima ostinato, ed alla fine contentò. Beltrando disse ad Alaimo e ai due nipoti essere a Barcellona per imbarcarsi per la Sicilia. I pericoli del mare di nobile memorie si trovano nell' archivio del monastero della famiglia Trinità della Cava della famiglia Atenolfo della predetta città fin dall' anno 1097 dove il Conte Pietro Atenolfo con suo figlio intervennero nella sentenza profferita in favore del detto Monastero contro Giovanni Clerico Salernitano sopra il possesso di un rivolo d'acqua che andava nel Monastero di San Massimo in Salerno donata al detto monastero dal Principe Gisolfo e spettante al monastero medesimo della Cava ; Giovanni figlio del detto Conte Pietro Atenolfo leggiamo essere stato cameriere del Re Guglielmo II° e dato per mallevadore da Landolfo Stratigò ad un tal Ruggiero nell' anno 1174 da cui nacque Matteo come da un' altro contratto dell' anno 1197 Giovanni figlio di Anzacolla Atenolfo Milite , cioè Cavaliere , e nipote del detto Matteo nell' anno 1252 viene dato per plegio del sacro Monastero di Cava a Nicolò Prete. Roberto nell' anno 1307 fu figliuolo del detto Giovanni; Paolo nell' anno 1342 appare figlio di Roberto dal quale deriva Giò . Filippo mastro di Cava di Giovanni cardinale d'Aragona figlio del Re Ferdinando I°; nel tempo in cui era Vescovo o abbate della città di Cava ; nell' anno 1578 Alfonso Atenolfo fu anch'egli dottore di legge , e nell' anno 1532 nella città di San Seviero vi fu anche Aurelio Atenolfo degnissimo dottore che nell' anno 1549 fu creato Giudice Regio della città di Langiano e nell' anno 1559 nella città di Capua e per i suoi meriti nell'anno 1561 fu creato Giudice del vicario in luogo d'Annibale Muies che fu indi reggente della cancelleria. D Alfonso nacque Bernardo della città della Cava che nel passaggio dell' Imperatore Carlo V° per detta città venendo dall' impresa di Tunisi fu eletto a portar la mazza del palio giunto con Annibale Troise Giò Atenolfo; Federico Longo ; Paolo D'Anna, Giò, Andrea De Curtis e Giò , Giacomo Longo nacque da Bernardo e Giò ; Andrea Atenolfo avo del Dottore Carlo , Cesare fu fratello del Dottore Alfonso dal quale nacque Tadeo Atenolfo padre di Scipione Atenolfo uomo di lettere il quale fece diversi uffici , Giò , Matteo padre di Francesco Atenolfo da cui nacque Matteo e Carmine , da Scipione nacque Fulvio Atenolfo, e Giò , Benedetto fratelli ambedue Dottori il quale Giò , Benedetto fece vari uffici e tra gli altri fu giudice della città dell' Aquila nell' anno 1608, dal quale nacque Giovanni Atenolfo , e da Fulvio Atenolfo sono nati Flamminio e Scipione ambedue Dottori. Da Flaminio Atenolfo nacque Fulvio Junior e Tommaso della medesima famiglia sono il Cavalier Giò; Santo e il Dottor Giacomo Atenolfo fratelli il quale ha esercitato diversi uffici Reggi e tra gli altri fu giudice di Troia . Sin qui il Beltrano con i luoghi citati nel margine come potra leggersi nel medesimo. Descrive ancora la medesima illustrissima famiglia e specialmente il pregiatissimo feudo di Castelnuovo l'abate Paciucchelli , ma colui che pensa narrare i scrittori dei suoi pregi e appalesare al Mondo le sue rarissime doti cerca piuttosto formare grossissimi volumi che una picciola dedicatoria conviene almanco far noto qualmente negli anni in circa 1260 ne i registri e in altri libri d'introito esiti fatti nei governi degli abati D. Tomaso si leggono contanti beni stabili posseduti dai vostri chiari progenitori nella medesima città di Cava vostra Patria , che essendo quasi dissi , innumerabile, non possono leggersi senza gran meraviglia e stupore siccome negli altri tutti dei successori dell' Abate predetto, anzi la nota che si conserva nell' inventario dell' Abate Mainerio fatto nel 1359 . Essendo ogni altro credere copiosa di numeri dei vostri beni preaccennati starei per dire sembra più tosto finta che vera se non sapesse pur chiaramente che la ricchezza da tempo immemorabile ha conservato loro fortunata ricetta nella vostra già descritta famiglia partorite solamente ( non mica da negozi) e industrie dalle armi e dalle lettere e invero se vogliamo fermarci nei libri della cancelleria della vostra patria la Cava qui troveremo sin dall' anno 1500. Bernardino Atenolfo che con il suo raro governo si rese il sostegno del pubblico di essa città in tutte le necessitose occorrenze; indi un Bernardo che lungi affatto dalle lusinghe sembrava l'unico suo istituto e oggetto la confermazione del decoro così nel comune come altresì d'ogni più infimo cittadino che componeva quel corpo civile che veniva tanto custodito dalla sua prudenza e sapeva quasi sempre Capo del magistrato di quella in cui dimostrò specialmente la sua potenza e valore come ancora il gran talento risaltante sopra degli altri nel passaggio del gloriosissimo Cesare Carlo V° per la città di Cava suddetta fu allora che fu destinato a ricevere quella Grande Maestà e ad ottenere tutti i pesi più onorevoli in quell' occasione tanto festiva tralasciando l'essersi innumerabili volte condotto a Saurani per affari importantissimi di città ma soprattutto per la difesa dei privilegi che sempre specialissimo pregio della Vostra illustrissima Casa proteggere le prerogative della predetta Città come si nota nei libri della sopradetta cancelleria oltre in tutto il corso di 200 e più anni dal sopradetto tempo 1500, che si conservano le memorie dell' accennato luogo ove sopra ; più in particolare nell' anno 1536 che fu il passaggio di Cesare come sopra e nel e nell' anno 1537 dopo la ricevuta onore della presenza di un così grande Sovrano ( passaggio per Cava del re Carlo V°) ritrovandosi il medesimo Bernardo degnissimo Prefetto del Governo della città mentovata ottenne dalla Maestà suddetta la conferma di tutti i privilegi della medesima ; nel tempo stesso fiorirono con e qual senno, e dottrina , Tadeo, Giò , Alfonso e Martinetto indi il Dottor Fulvio Atenolfo Segnore da cui nacque il Dottor Flaminio Atenolfo, uomo sapientissimo in tutte le scienze il quale fu il primo Barone di Castelnuovo che con impalmarsi Anna giovane strinse parentela con la nobilissima famiglia di Giovanni dei Duchi di Sant' Angelo Fasanella tra questi Bartolomeo giovane sotto il Rè Carlo I° nell' anno 1275 fu signore di Bellante, Montorio e di altre terre in Abruzzo icasio giovane nel tempo stesso fu Barone di Picerno e Colobraro, Giovanni fu cameriere del Rè Roberto nell' anno 1332 Giò, Francesco fu signore della Baronia d'Ottati e di sant' Angelo Fasanella come sopra , quali da Giò Antonio suo figlio passarono in Francesco , fratello del detto Barone fu Cesare padre di Paolo Capitano di fanteria . Uomo di molto valore ma se volesse narrare alla distesa le prerogative di questa chiarissima famiglia mi scorderei affatto del mio istituto essendo ornata da ogni fregio e nobilitata da ogni privilegio quivi furono diversi Sergenti Maggiori innumerevoli Dottori e Capitani tutti qualificati e da feudi e da privilegi così nelle lettere come nelle armi siccome più diffusamente il Beltrano nella sua breve descrizione del regno di Napoli da noi puntualmente veduti i luoghi da Lui citati e ritrovati del tutto veri : con detta famiglia cotanto chiara contrasse parentela come si è detto il Barone Dottor Flaminio che preferendo al Governo della città dimostrò zelo indicibile e nelle imprese appalesò chiaramente che nel suo petto conservava un cuor nobile da chi nacque il dottor Fulvio Atenolfo degnissimo padre di V.S. Illustrissima che fu il secondo Barone di Castelnuovo uomo notissimo ai tempi nostri ornato da tutti le più nobili doti che si echeggiano a forma un eroe di cui per la vostezza dei meriti non ardisco a far distinto memoria non aggiungendo alla sua meta la mia penna che è poca tersa onde tralasciandolo a famosi scrittori come ancora il Dottor Scipione Atenolfo che fu Barone della Fusara fa ritorno al suo reverendissimo personaggio come dorato germoglio di si aureo tronco che nulla curando che solo la gloria e il mantenimento del già descritto Casato. Volle sposarsi nel suo ricercato casamento la signora D. Eleonora MARZATI delle nobili e illustre famiglia della città di Sorrento per la di cui descrizione chiederebbe volumi interi ma poichè temo tediare V.S. Illustrissima con la lunghezza delle mie suppliche stando certo del chiesto favore del riverito suo patrocinio resto tenuto dichiararmi per sempre .


Dopo la storia antica del Casato andiamo ad analizzare nel dettaglio e storicamente come Atenolfo/Adenolfo/Atenolfi etc e nella forma più corrente e italianizzata ANTINOLFI anche secondo Filadelfio Mugnos, (Lentini, 1607 - Palermo, 28 maggio 1675), storico e poeta, scrisse numerose opere, ma è famoso soprattutto per il Teatro genologico delle famiglie nobili titolate feudatarie ed antiche nobili del fidelissimo Regno di Sicilia viventi ed estinte, opera che restò per alcuni secoli un riferimento obbligato per genealogisti e storici che si occupassero della Sicilia. Il quale afferma che tutti discendenti diretti della stesso ceppo Longobardo degli Atentonfo che Nacque da Landenolfo, gastaldo di Teano, e fu nipote di Landolfo il Vecchio, gastaldo di Capua (815-843), che era stato l'iniziatore di una numerosa dinastia, ricca di molte propaggini, di gastaldi e conti di Capua e poi di principi di Capua-Benevento et. Etc. Il nobile casato si divise in diversi rami tra cui gli ANTINOLFI di Cologna, che si trapiantarono in Vicenza al principio del secolo XVIII. Adinolfi/ Atenolfo/Atenolfi/Antinolfi in particolare un Atenolfus è attestato nel 912 a Cava de' Tirreni in Provincia di Salerno. Il cognome deriva dal nome proprio di persona Atenolfo/Adinolfo, variante più rara di Adolfo, a sua volta dal germanico athal o adal ("nobile") e wolfa o wulfa ("lupo"), con il significato di "nobile lupo", se non con quello totemico di "padre lupo" considerata la radice atha ("padre"). Il nome Adinolfo/Atenolfo fu introdotto in Italia dai Longobardi e tenuto vivo dagli altri invasori germanici, per i quali il lupo rappresentava la forza ed era sacro a Odino. Come nome personale se ne hanno le prime documentazioni nella forma latinizzata Atenulfus, ripresa da Atenulfo di Chianocco, signore di Bussoleno; un Adenulfus fu abate di Farfa nell'842. Un Atenolfo di Benevento fu abate di Montecassino dal 1011 al 1022: apparteneva alla nobile famiglia longobarda degli Atenulfingi, così come gli altri Atenolfo che furono principi di Capua e Benevento o di Gaeta fra il IX e l'XI secolo Arcivescovi etc. Gli Adinolfo/Atenolfo/Atinolfi erano una famiglia Longobarda giunta in Sicilia alla fine del XII secolo al seguito dell'imperatore Enrico VI che, per i servizi resigli, conferì a Lanfranco Adinolfi il dominio su Catania mentre suo figlio Giovanni Adinolfi fu scudiero dell'imperatore Federico II. La famiglia fu insignita del titolo baronale con vari feudi. Infatti la famiglia Adinolfo/Atenolfi/Atenolfo/Antinolfi fu una nobile casata della Campania, esattamente di Cava dei Tirreni, in provincia di Salerno. Antica famiglia di Cava nota già dal XV secolo, vantavano il titolo di Marchesi di Castelnuovo, da quando furono decorati, il giorno 16 dicembre dell'anno 1724, del suddetto titolo, di Marchese di Castelnuovo appunto, nella persona di Nicola Atenolfi. Gli Atenolfi possedettero le baronie di Massanova e di Agropoli. Il quarto volume delle Imprese ovvero Stemme delle famiglie italiane, raccolte da Gaetano Montefuscoli da diversi libri genealogici, blasonisti e altri, a pagina 191 della prima parte, volume conservato nella Biblioteca dell'Università di Napoli, con collocazione MSS.121 dell'archivio dislocato in via G. Paladiso, numero 39, riproduce il vecchio stemma della famiglia Antinolfi (poi si vedrà perché è lo stesso che Atenolfi).A Nicola Atenolfi/Antinolfi, fecero seguito quali Marchesi di Castelnuovo Fulvio Atenolfi, Flaminio Atenolfi e Pasquale Atenolfi, ultimo intestatario del feudo, nato nel 1826 e passato a miglior vita nel 1908. Fulvio Atenolfi, con Regio Rescritto del giorno 15 febbraio dell'anno 1841, ottenne il riconoscimento del titolo. Il summenzionato Pasquale Atenolfi fu Senatore del Regno d'Italia, Presidente della Croce Rossa Napoletana, Presidente del Comitato di Soccorso del terremoto di Casamicciola, Presidente della Società Risanamento di Napoli, socio dell'Accademia dei Georgofili nel 1864, Grand'Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e Commendatore dell'Ordine della Corona d'Italia. Nell'Archivio di Stato di Napoli è citato un certo Marchese Pasquale Antinolfi di Napoli ("Per marchese Pasquale Antinolfi affranco di censo"), che con ogni probabilità deve considerarsi lo stesso che il Marchese Pasquale Atenolfi, di cui si è detto sino a ora. Il riferimento, nell'Archivio di Stato di Napoli, è Amministrazione Generale della Cassa di Ammortizzazione e del Demanio Pubblico, inventario 35 standard, contenitore 887, unità di descrizione 16804. Si può dunque inferire l'equivalenza Atenolfi-Atenolfo- Antinolfi. La famiglia Atenolfi fu iscritta nell'Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano nell'anno 1922. La Biblioteca Comunale "Renato Serra" della Città di Solofra, in provincia di Avellino, e il Centro Studi di Storia Locale di Solofra nel 2006 hanno pubblicato la dispensa Per una storia della famiglia Antinolfi, opera di Mimma De Maio e di Lucia Petrone ove si afferma che la famiglia Antinolfi proviene da Cava dei Tirreni In Provincia di Salerno. Il Ramo degli Antinolfi diretti discendenti del Principe Longobardo Mauro lo troviamo presso l'archivio storico di Napoli esistono atti relativi alla Cancelleria Reale ove risulta che Francesco Antinolfi è stato patrizio di Cava e ancora laurea Carlo Antonio Antinolfi di Cava. Donna Giovanna Ammone, figlia di don Michele Ammone, patrizio di Sorrento e di donna Flavia Antinolfi, sposò il 15 giugno del 1758 don Gregorio Giliberti, causidico napoletano, 1° Barone di Celenza e Carlantino(Capitoli matrimoniali del notaio Corrado Antignani di Napoli).GREGORIO Giliberto da Solofra 1° Barone di Celenza e Carlantino fu presentata per la prima volta nel XVIII sec. in occasione del processo di ammissione all'Ordine di Malta. Questa origine, oggi comunemente accettata dai genealogisti. Infine sempre a Solofra, in antichissimi atti viene riportato testualmente che: 18 giugno 1799 atto notarile (ASA. B 7015, f.70v Storia del Comune di Solofra (AV) dichiarazione di alcuni soldati della Truppa di Solofra, che, al comando del capitano Pasquale Ronca, il giorno 23 giugno attaccò "i ribelli del Trono" nei dintorni di Napoli. Tra questi vi era anche Don Vincenzo Antinolfi che partecipò attivamente ai combattimenti. Altre dichiarazione di alcuni particolari di Solofra circa l'impianto dell'albero della libertà nella Piazza di Solofra e l'abbattimento delle Armi di Ferdinando IV poste sull'insegna della Regia Doganella del sale di Solofra ai quali parteciparono Don Ciriaco, Michele e Antonio Antinolfi diretti discendenti del Principe Longobardo Mauro Antinolfi. Oggi il Principe Longobardo Mauro Antinolfi VIII° a seguito delle molteplice vicende che lo hanno visto sempre protagonista e attento cultore della storia e delle tradizioni nobiliari e grazie anche alle ricerche araldiche nobiliari che ha visto la discendenza diretta dal Nobile Principe Longobardo Atenolfo di Capua e Benevento etc. etc., come meglio sopra riportato e di cui è legittimo discendente. Come anche affermato nella ricerca della Dottoressa Mimma De Maio e Lucia Petrone, rispettivamente Direttrice Onoraria e Collaboratrice della biblioteca del Comune di Solofra AV)" Renato Serra" - centro di studi storici di storia locale nella sua pubblicazione datata 2006 denominata " Per una storia della famiglia Antinolfi di Solofra". La stessa Dott.ssa De Maio afferma che dalle ricerche presso archivi statari di Avellino e Solofra emergeva chiaramente che la famiglia Antinolfi si era impiantata a Solofra già nel XVIII° secolo (1732) proveniente dalla Città di Casa dei Tirreni (SA). La cittadina metelliana aveva già in passato fornito costruttori per la realizzazione di alcuni palazzi e della collegiata del Palazzo Orsini. La predetta afferma altresì che i primi ad insediarsi in Solofra sono i fratelli Nicola e Francesco ANTINOLFI provenienti appunto da Casa dei Tirreni (SA). Questo è il collegamento ufficiale e documentato che chiarisce ufficialmente la discendenza Longobarda e appartenuta ai Principi di Caputa e Benevento del Casato Atenolfo. Infatti gli Antinolfi di Cava, discendenti diretti del Principe Mauro si spostano tra la Provincia di Salerno e quella di Avellino tra il 1700 e il 1800 rimanendo poi definitivamente in Provincia di Salerno (1878) dove nasceva l'odierno principe. Ha inoltre ereditato, per abdicazione, la Transnistria e le 198 Province dell'Impero Medievale Russo e la penisola di Kamchadal. La concessione Imperiale ereditaria veniva a seguito di abdicazione in forma irrevocabile da His Royal Imperial Majesty Sovereign and pious , Czar Anton Romanov Rurikovitch Cazarevtche XI, Re e Imperatore della Monarchia Medievale Rus, Principe Sovrano dei Laghi di Ladoga e di Onega, appartenente al lignaggio del generale romano Gaio Giulio Cesare, Principe dell'Antica Volga Bulgaria, Principe Sovrano del Canato di Cazà, del Canato di Astrakhan e del Canato della Siberia, etc etc in Esilio in Ucraina concessione registrata al nr. 1222 del 29 agosto 2017 in Ucraina. Anche le concessione successivamente passate al Principe Don Mauro Antinolfi VIII° da Don Crystiano Barack Baz Baz V°, Gran Zar della Transnistria - Moldavia e di tutte le 198 Province Medievali di Rurikids- Russia con Fons Honorum, concessione nr. 7809 del 02 Dicembre 2017 in Brasile e concessione nr.7809 del 22 febbraio 2018 in Brasile e concessione nr. 7809 del 08 Marzo 2018 in Brasile. Tutte le predette concessione con "FONS HONORUM", come pure del Regno Imperiale di Slobozia veniva concessa con Lettera Patente nr. 54651/1222 del 16 Maggio 2017 e come pure le 198 Province dell' Impero Medievale Russo di Rurikids venivano cedute al predetto Don Crystiano Barack Baz Baz V dal Czar Anton Romanov Rurikovitch Cazarevtche XI. Ogni diritto in possesso a Don Crystiano Barack Baz Baz V sulla Transnistria e sulle 198 Province dell' Impero Medievale di Rurikovitch Cazarevtche XI venivano cedute con atto irrevocabile al Principe Don Mauro Antinolfi VIII° per abdicazione. La Casa gode dell'alta Protezione Spirituale e riconoscimento della Santa Chiesa Bizantina Ortodossa, riconosciuta con decreto nr. 00007394 concesso nell'anno 2017; Chiesa Greco-Bizantina di Ungheria - con sede in Italia nella città di Valdagno, decreto del 18 Settembre 2017; Chiesa Cattolica Ortodossa Giudaica Indipendente di Ucraina con decreto 753 del 29/08/2017; Chiesa Anglo-Céltica Liberale con sede nella Repubblica del Brasile nella città di Aparecida; Chiesa Cristiana Cattolica Ortodossa Ospitaliera di San Giovanni di Gerusalemme nella persona di Sua Eccellenza Monsignor Lucas Rocco Massimo Giacalone Pro-Patriarca Arzobispo Metropolita Primado - dalla Sede internazionale di Malta riconoscimento avvenuto in data 22 Giugno 2018; Riconosciuta dal Tribunale Araldico Aristocratico Ecclesiastico Done At Yaounde (Nigeria) con Decreto nr. 00007395 del 27 Settembre 2017; Infine Monsignor Dom Geovane Crisostomo (Luiz de Souza Martins) Primate Metropolitano della Chiesa Ortodossa Cattolica Bizantina in Brasile - IOCB - Esarcato e Metropolita Patriarcale della Chiesa Ortodossa Autocefala d'Europa in Brasile, in virtù delle nostre Prerogative e Successioni Apostoliche e in conformità con i Canoni e le Regole della Santa Chiesa Con Bolla nr. - IOCB CNPJ: (MF) 08.185.065/0001-60 in data 29 luglio 2019 ha DECRETIAMO E RICONOSCIAMO a H.S.M.R.I.H. Zar Prince Lord Dom Mauro Antinolfi VIII, Capo del Nome e Armi di Imperiale Casa Medievale Antinolfi VIII Di Kamchadal e Transnístria e delle 198 Province dell' Impero Medievale Russo, in esilio, in Italia, con tutti i suoi Titoli di nobiltà e Ordini di Cavalleria, insieme a tutti i nobili della sua Sovrana Casa Reale e Imperiale Medievale e della Dinastia Antinolfi VIII: Legittimo discendente dei grandi nobili d'Italia e sangue reale di Antinolfi con trattamento di S.M.R.I. (Vostra Maestà Reale e Imperiale), Facoltà ereditaria, con l'inalienabile Facoltà di Concessione anche dei Titoli, sostenuta dal proprio cognome di Antinolfi, unico e legittimo Re e Imperatore di tutto il suo Impero di Kamchadal e Transnístria e delle 198 Province dell' Impero Medievale Russo in Proprietà Immateriali, Concessione, Riconoscimento ed estensione irrevocabile di FONS HONORUM (Fontana d'Onore con JUS HONORUM, JUS DISPONENDI e JUS MAJESTATIS, con il Diritto di concedere e riconoscere Titoli nobilità e Ordini di Cavalleria. Atto Episcopali del 29 luglio 2019 dell'anno della grazia di nostro Signore. Registrata nel Registro della Trasparenza Europea al nr 845456629983-30 del 04/02/2018. Alla Casa vengono riconosciuti anche i legittimi diritti storici,dinastici, nobiliare, araldici e cavallereschi di collazione a livello internazionale come pure gli ordini dinastici della Corona di Slobozia, Odine Imperiale dei Cavalieri della Gran Croce ,Nobile Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano il Grande, Sacro Ordine Equestre Ecumenico Ortodosso dei Templari di San Michele Arcangelo, Serenissimo Ordine Nobiliare dei Cavalieri di Malta e Cilicia, Insigne Accademia Medievale, Associazione On/Lus No/profit denominata "Serenissimo Ordine Nobiliare dei Cavalieri di Malta e Cilicia" registrata presso l' Agenzia delle Entrate di Lagonegro al nr.A00 AGE-DP-PZ0056939 del 18/10 2016. Inoltre la Casa è dotata di una Guardia d'Onore Imperiale. La Casa è riconosciuta e apprezzata dalle sottonotate Case Reali, Imperiali, Principesche e Granducali, come Casa Imperiale e Reale della Rosa del Brasile, Sovrana Casa Reale e Imperiale Medievale di Grigoripol del Brasile, Augustissima e Sovrana Imperiale e Reale Casa Souza I° del Brasile, Sovrana Imperiale e Reale Casa Medievale di Dubasari del Brasile, Sovrana Imperiale e Reale Casa Medievale di Glodeni del Libano, Principesca e Graducale Casa Lavoto Italia, Sovrana Imperiale e Reale Casa Medievale di Tighina, Italia, Sovrana Imperiale e Reale Casa Medievale di Tiraspol, Italia, Sovrana Casa di Andres Salvador Soto Martinez Spagna, Augusta Reale e Serenissima Granducale e Principesca Casa di Borbone Ribezzi di Spagna, dal Principe dell' Arabia Saudita Abdul Rahman Abed Rabbo al-Yami che rappresenta il Medio Oriente in qualità di Vicepresidente della Regione Araba presso la Commissione Internazionale per i diritti umani delle Nazione Unite, nonché altre case. L'Imperiale Casa Antinolfi VIII° è anche inserita nel libro d'oro delle famiglie nobili e notabili italiane edito dal Conte Enzo Modulo Morosini anno 2016. E' anche inserita nel gazzettino Araldico del centro Studi Araldici numero 21 del mese di Novembre 2016. Lo stemma della casa è coperto da Copyright e protetto in 99 Paese con registrazione nr. DEP635972554937764144 del 26/04/2016. Viene anche riportato nel Registro Araldico Italiano edito da Pasquini. Capo della Casa Imperiale, Gran Maestro degli Ordini Dinastici, Presidente dell' Associazione e Rettore dell' Accademia nonché Pontifex Maxmus- Etnarca per l'Italia della Chiesa Cattolica Ortodossa Ebraica Indipendente di Ucraina, Collegiata di San Michele Arcangelo di kiev, è il Principe Imperiale Mauro Antinolfi VIII°, Vice Re di Wetterukreis Principe Imperiale erede dell' intero Impero della Transnistria e delle 198 Province dell' ex Impero Russo Medievale , Pontifex Maxmium, Tetrarca per l'Italia della Chiesa Cattolica Ortodossa Ebraica Indipendente in Ucraina Patriarcato di San Michele Arcangelo di Kiev, IX° Principe Reggente della Reale Casa Della Rosa di Sassuolo in esilio in Brasile. Infine La Casa e il Suo Principe veniva legittimano in virtù dei Nostri Diritti Riconosciuti dalla Magistratura Italia, Corte Superiore di Giustizia Arbitrale di Firenze - Tribunale Arbitrale Nobiliare Internazionale Organo Permanente della Corte Superiore di Giustizia Nobiliare Arbitrale di Firenze con sentenza nr. 15/2019 R.G. del 18.09.2019 e con Deposito e registrazione presso il Tribunale Ordinario di Lagonegro (PZ) al nr. 22/2019 R.A.A. del 23.09.2019 e pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Basilicata nr. 36 dell' 01.10.2019 pagina 216,unitamente alle prerogative spettantiCi connesse allo Jus imperii, jus gladii, jus maiestatis e jus honorum . Sentenza esecutiva passata in giudicata estesa nel territorio dei 194 Stati aderenti alla Convenzione di New York del 10 giugno 1958 e resa esecutiva in Italia con Legge 19.01.1968 nr.62 nei modi e nei termini previsti dal Diritto Internazionale. Tale Sentenza riconosce le qualità di soggetto materiale di Diritto Pubblico Internazionale (Capo di Stato,plenojure) e di Gran Maestro degli Ordini Cavallereschi dinastici - familiari ergo non nazionali ai fini della legge 03 marzo 1951 nr. 178. Il Principe Don Mauro Antinolfi e la Sua Casa e tutti i Suoi titoli nobiliari e ordini Cavallereschi di collazione, non nazionali, venivano anche riconosciuti nella piena legittimità da altre sentenze indirette in capo ai nobili Casati . A Valdagno, in provincia di Vicenza, 28 maggio 2019, Samuele Lovato, riconosciuto nella piena legittimità dal Tribunale Nobiliare Internazionale, organo permanente della Corte Suprema di Giustizia Nobiliare Arbitrale di Bari, con sentenze del 29.05.2015 - R.G.N. 0302 e con avviso nobiliare-conferimento di titoli nobiliari-estratto decreto di concessione nobiliare pubblicato sul bollettino ufficiale della Corte Suprema di Giustizia Nobiliare Arbitrale, anno IV, numero 9, del 15 settembre 2016 ha riconosciuto al Principe Don Mauro Antinolfi VIII°, Re e Imperatore dell'Imperiale Casa Medievale di Kamchadal e Transnistria e delle 198 Province dell'Impero Medievale Russo, e tutti i Suoi titoli Nobiliari e Cavallereschi. Altra sentenza indiretta del Casato Guerrino-Perna e altra ancora del Casato Zaffiri. E' inoltre dimostrato con i fatti sopra esposti e storicamente come l'odierno Casato, legittimamente rappresentato dal Principe Longobardo, diretto discendente del menzionato Landenolfo nipote di Landolfo il Vecchio e che l'attuale Don Mauro ANTINOLFI VIII° dell' Imperiale Casa Medievale di Kamchadal e Transnistria e delle 198 Province dell'Impero Medievale Russo è il legittimo erede del Casato per cui legittimo detentore di tutti i titoli nobiliari in possesso al Casato e al ramo degli ANTINOLFI di Cava dei Tirreni (SA) e della Campania, quindi rappresentante della Casa Longobarda Atenolfo/ANTINOLFI di Caprioli. Lo stesso Casato si è poi diramato in diverse regioni dell' Italia ma sempre discendenti dallo stesso ceppo, infatti abbiamo: ----------------------------------------------------- Il ramo Siciliano del Casato Adinolfo lo troviamo in: Adinolfo lucchesi Palli, Andrea Capostipite siciliano che passò in Sicilia nel 1067 o 1097 erano una famiglia Principesca discendenti direttamente dal Casato dei sovrani longobardi . Il capostipite è Adinolfo , figlio di una sorella di re Desiderio re longobardo che trasse il cognome da un proprio castello detto Tre Palli. I suoi discendenti governavano Lucca. Capostipite Siciliano, è Andrea Adinolfo Lucchesii Palli che si trasferì in Sicilia assumendo anche il cognome Lucchesi per ricordare la propria patria ; I Suoi discendenti dimorarono in Siacca, Naro e Palermo . Un Luigi Antonio Adinolfo Lucchesi Palli fu nominato Prefetto da Federico II° del Sacro Romano Impero . Un Giacomo Adinolfo Lucchesi Palli, Barone di Camastra , fu per diversi anni Senatore di Palermo . Un Giuseppe Adinolfo Lucchesi Palli fu giurato di Naro. Un Giovanni Adinolfo Lucchesi Palli , Principe di Campofranco , fu pretore di Palermo. Un Saverio Adinolfo Lucchesi Palli fu giurato di Licata . Complessivamente la famiglia possedette un Principato, quattro Ducati , tre marchesati, una Contea e altri 18 feudi . Adinolfo Lucchesi Palli , vuolsi dal Villabianca che tale antica e nobilissima famiglia prendesse origine da un Adinolfo Lucchesi Palli, signore di un castello detto tre Palli da questo il nome. Ramo Calabrese degli Adinolfo lo troviamo in : Atinolfo d'Aquino di stirpe Longobarda , ebbe come capostipite un Atenolfo, signore di Capua ed Aquino nel 996 da cui prese il nome derivante da quel famoso ramo Atenolfo d'Aquino dei Conti di Belcastro , perciò Adinolfo fratello dei Conti Tommaso Atenolfo d'Aquino. Nel 1303 il re di Napoli Roberto d'Angiò concesse il feudo ad Atenolfo d'Aquino, ed il dominio della famiglia Atenolfo d'Aquino sulle terre di Castiglione che durò fino all'eversione della feudalità. Fu signore di Castiglione in Calabria e il Conte Tommaso non solo possedette Belcastro che lo governò ininterrottamente fino al 1373, ma la Baronia di Barbaro permutata per ragione di Fiordiladra sua Madre ebbe la Filippa sua moglie Tommaso, Giacomo e Landolfo e diede al figlio primogenito la Contea di Belcastro che ebbe confermata dal Rè Rubberto nel 1333, conseguì anche la porzione materna sopra il Monte Sant' Angelo che gli toccava come discendente del Conte Atenolfo d'Aquino ebbe per moglie Maria De Sus Contessa di Sant'Angelo e nacque Adinolfo , e Cristofaro , ma gli altri due fratelli , cioè Giacomo e Cristofaro furono progenitori di molti Cavalieri che si chiamarono con il nome di Adinolfo, Tommaso, Landolfo e Cristofaro. Infine la famiglia Adinolfo d'Aquino giunse anche in Cosenza come giustiziere di Valle Crati 1306. Andrea Adinolfo d'Aquino , nel 1472 fu creato protonotario di Valle Crati e Terra Giordana dal re Ladislao . La famiglia Adinolfo d'Aquino di Crucoli Mendicino governo fino al 1550 . Ramo Lombardo-Veneto:- Le sue varianti includono Adinolfo, Adolfi, D'Adolfo e l'alterato Adolfini. Un Sebastiano Antinolfi fece parte del Consiglio dei 150. L'antichissimi origine, e progressi di questa chiarissima famiglia, infatti il Margia Paolo nella "" Nobiltà di Milano divisa in sei libri "" stampato in Milano nel 1595. Lo stesso autore riferisce essere questa una delle più nobili ed antiche famiglie di chiare origine Longobarda. Lo stesso Dongiovanni , grande etimologista ( fine 800, primi 900), afferma che il casato Atnolfi, Adinolfi, Atenolfo, Antinolfo e Andinolfi o Antinolfi è originario dalla predetta radice. Così come riporta anche l'Enciclopedia Storico Nobiliare italiana del Marchese Vittorio Spreti che conferma le notizie sulla Casata Antinolfi. Il ramo degli Atenolfo -Adinolfi - Atinolfo - Antinolfi di Sicilia e del Ex Regno di Napoli erano vetusta famiglia nobile feudataria. Questa famiglia si diramò in diverse regioni della penisola italiana . Altro ramo ancora della nobile famiglia Atenolfo/ANTINOLFI originaria di S.Miniato, si trasferirono posteriormente in Pistoia, dove nel 1519 Giovanni di Domenico Antinolfi coprì la carica di Priore, e suo fratello Jacopo, nello stesso anno, quella di Gonfaloniere. Dal 1590 passarono in Fucecchio, e un secolo più tardi, a Portoferraio nell' Elba, sempre conservando rango distinto e cospicuo patrimonio. In considerazione di ciò e anche in omaggio alla tradizione che, pur non offrendone una dimostrazione precisa, attribuiva ai membri della famiglia discendenza comune con i Cancellieri , il Granduca li ascrisse al patriziato di Pistoia con decreto 10 luglio 1816. Antonio Antinolfi nel 1590 fu uno dei primi Cavaliere del Sacro Militare Ordine di S. Stefano. L'Ordine fondato il 02 agosto del 1554 allo scopo di ricordare la vittoria sui Francesi nel giorno di S. Stefano ( 254-257 ) a Montemurlo, il granduca di Toscana Cosimo I° chiese al pontefice Pio IV° la possibilità di fondare una propria Religione , dandola con mezzi propri. Il pontefice con Breve Dilecte Fili autorizzò il sovrano a fondare il nuovo Ordine e concesse a Lui e ai suoi successori il Gran Magistero. L'Ordine imponeva ai suoi cavaliere la prova dei quattro quarti di nobiltà, i quali portavano la croce rossa orlata d'oro, e facevano i voti di povertà e obbedienza ed erano obbligati per 3 anni a percorrere i mari con le galere dell' Ordine. I Cavalieri all' epoca erano circa 100 insigniti, come detto, per virtù, meriti e nobili di stirpe.

LA LAURINO DEL PRINCIPE ATENOLFO

Nell'anno 964 Landolfo, figlio del principe Atenolfo di Capua, per iniquità, per orgoglio e crudeltà era stato con tutti i suoi figli discacciato da Capua, e si era ritirato a Napoli....il buon principe Gisolfo, a preghiere di sua madre ("Gaitelgrima"), ch'era sorella di esso Landolfo non solo li chiamò in Salerno, e lo arricchì, ma lo rese ancora il primo dopo di lui nel Principato, per la sua affettuosa confidenza, e per avergli dato il contado di Conza, e altri contadi ai di lui figli, a Landolfo, uomo fraudolento e di pessima fede, quel di Laurino, Sarno ad Indolfo, e Marsico a Guaimario( 971). Landolfo, quindi, fu il secondo feudatario di Laurino.Non ne furono certo contenti i due nipoti, conti Guaimario e Guaiferio, cui fu riservata piccola donazione, eppure figli di due fratelli germani, a loro volta figli del principe Guaimario II, allorché Gisolfo diede a famiglia straniera i Contadi di Conza, di Laurino, di Marsico, di Sarno; e tutti ad una sola famiglia, che videro poi servirsi degli stessi, per mandare in rovina lo stesso Gisulfo. Molto probabilmente la contea di Laurino passò al "toscano" Giovanni, che da allora, appunto, assunse il nome di Giovanni di Laurino (nel 974 fu fatto tutore di Pandolfo Giovanni Conte di Laurino). Il castello di Laurino esisteva, quindi, nella prima metà del X secolo, periodo in cui va collocata, con maggiore esattezza, la sua costruzione. Lamberto sposa Engilperga (prima del 945) dalla cui unione nasce Giovanni (primi decenni X sec.), conte di Laurino, che sposa, nel 954, Gaitelgrima di Teano (o di Capua) (935), figlia di Atenolfo di Teano (880-), noto anche come Atenolfo II di Benevento;

LA CALVI DEL CONTE ATENOLFO

Nell' 879 Cales fu distrutta dai saraceni, in seguito fu ricostruita dal longobardo Atenolfo, conte di Capua, che cominciò a costruirvi il castello. La sua iniziativa fu avversata da Pandolfo, che, temendo che il suo vicino non divenisse troppo forte, voleva stroncarne all'inizio la potenza. Egli assalì Calvi fece prigioniero Atenolfo, ma Landone di Capua, fratello di Atenolfo, provvide a proteggere, con i suoi armati, gli uomini che costruivano il castello.

ROCCASECCA DEI CONTI ATENOLFO D'AQUINO

A Roccasecca, su uno sperone di roccia pendente sulla frazione di Caprile, sorge un Castello medievale (o ciò che ne rimane) conosciuto anche come Castello dei Conti Atenolfo d'Aquino perché da loro tenuto. abitato e fortificato. Il Castello di Roccasecca fu fondato nel 994, per conto dei Conti Atenolfo d'Aquino, dall'abate Mansone di Montecassino, a difesa dell'Abbazia dai Longobardi; dato il ruolo strategico che assumeva il territorio di Roccasecca rappresentava un sito appetibile per le mire espansionistiche dell'abate stesso che con tale concessione intendeva aumentare la difesa dal versante occidentale del monte, a controllo dell'attraversamento del Melfa. La prima destinazione fu Monte Asprano, dove poi nascerà Castruni Coeli (Castocielo) ma la mancanza d'acqua obbligò l'abate a scegliere un altro posto, scendendo più giù. Da questa penuria di acqua derivò il nome di Rocca-sicca (Roccasecca). Seguì un breve periodo di espansione territoriale da parte dell'abate Mansone ai danni dei conti di Aquino, che ebbe fine il nel 996, con l'accecamento dell'abate, vittima di un agguato. Il conte d'Aquino Atenolfo, quindi, occupò il castello di Roccasecca e ne fece smantellare le difese. Ai primi dell'anno 1000 il castello venne ricostruito per iniziativa dei conti Atenolfo d'Aquino, restando tuttavia oggetto di contesa per oltre mezzo secolo. Nel Castello vi nacque Tommaso d'Aquino nel 1224, teologo e filosofo. Il castello, per come si presenta oggi, ha l'entrata principale sul lato occidentale; entrati all'interno della corte si nota una grande cisterna necessaria alla raccolta dell'acqua piovana. All'esterno delle mura si erge la torre circolare di avvistamento e difesa recentemente restaurata, popolarmente detta il cannone; si narra che dopo il periodo di prigionia a Monte San Giovanni Campano, Tommaso d'Aquino, fu rinchiuso in questa torre eretta da Pandolfo e Rinaldo d'Aquino perché la famiglia non voleva che entrasse nell'ordine dei frati domenicani. Le mura merlate anche se ridotte a ruderi sono imponenti cosi come lo sono le torri quadrangolari (che con ogni probabilità ospitavano il corpo di guardia). Appena fuori le mura, sotto la piccola torre cilindrica, sul crinale tra il Castello e la torre, si trova la tipica chiesetta medievale di Santa Croce, dove fu battezzato San Tommaso. Il castello è sempre aperto e visitabile;

"SAN GIOVANNI INCARICA" DEI PRINCIPI ATENOLFO

Il definitivo abbandono della città si ebbe attorno al 587, quando venne distrutta dai Longobardi, un popolo barbaro violento e grezzo di origine germanica che sotto la guida del Re Alboino venne in Italia attorno al 568 conquistando i territori della Lombardia, Emilia, Toscana, Umbria (Ducato di Spoleto) e Campania (Ducato di Benevento), mentre il resto dell'Italia rimase sotto la giurisdizione dell'Imperatore bizantino. Fu per ordine del Duca di Benevento Zottone I che fu distrutta la città di Fabrateria Nova insieme a quella di Atina ed Aquino, portando così i confini sul fiume Liri. Gli abitanti della città si sparsero un poco ovunque, alcuni si rifugiarono sulle pendici del nostro monte Formale (Madonna della Guardia), e diedero consistenza all'attuale paese di San Giovanni Incarico (CARICA), altri si stanziarono presso l'ultima propaggine dei monti Lepinicostituendo l'attuale paese di Falvaterra (Fabraterra); un'altro gruppo si trasferì sulla sponda sinistra del fiume Liri ove sorse la cittadina attuale di Isoletta (Insula Pontis Solarati). Tutti e tre i paesi si ritrovarono a far parte dell'agro Aquinate sotto il dominio Longobardo. Inutile dire come fosse stato difficile agli inizi per gli abitanti del nostro paese vivere quasi in condizioni di schiavitù, senza tetto e minacciati dalla fame e dalle malattie. Si entrò a far parte del ducato di Benevento, uno dei più importanti ducati della storia longobarda in Italia. Data la lontananza del governo centrale e non essendo sottoposti alla diretta sorveglianza del Re, divenne quasi un vero stato autonomo. Cominciò a formarsi lentamente, dando origine al primo nucleo abitato presso l'attuale Piazza Giudea. Le prime abitazioni furono molto povere e servivano solo a ripararsi dalle intemperie. Il paese agli inizi prese il nome di Carica , presumibilmente perché le prime abitazioni furono edificate nelle vicinanze di piante di fico; infatti in latino la parola carica equivale a" fico secco". Fu sotto il dominio Longobardo per 206 anni fino al 774, quando Carlo Magno Re di Francia ed Imperatore d'Occidente, sconfisse a Pavia Re Desiderio esiliandolo insieme ai suoi famigliari in un convento in Francia dove terminò i suoi giorni. In questo anno Carlo Magno innalzò il ducato di Benevento a principato. Nel 845 il principato si scisse in due dando origine al principato di Salerno che comprendeva tra l'altro il nostro paese. Questo principato a sua volta si divise dando origine al contado di Capua che ereditò cinque dei sedici gastaldati che aveva in possesso. Il più importante gastaldato del contado di Capua fu Sora che era quello con maggiore estensione e geograficamente più lontano da Capua. Per questa maggiore estensione fu divisa in due dando origine al gastaldato Atenolfo d' Aquino. Il primo gastaldo di Aquino fu Rodoaldo parente dei conti di Capua. Il nostro paese come Falvaterra ed Isoletta entrarono alle dipendenze di questo gastaldato. Alla morte di Rodoaldo nel 883 gli successe Adenolfo I detto Megalù artefice della costruzione del castello di S. Giovanni Incarico. Il castello doveva servire a difendere la popolazione dalle continue incursioni e devastazione dei Saraceni, popolo di origine araba che proveniente dall'Africa settentrionale e dediti soprattutto alla razzia, occuparono prima la Spagna poi la Sicilia, dirigendosi subito dopo verso il centro. Fu in quel periodo, dopo che si erano insediati alle foci del Garigliano che intrapresero una serie di saccheggi ai danni soprattutto delle popolazioni delle nostre campagne. Ad Adenolfo I° successero nell'ordine di tempo , Rutiperto, Siconolfo I e infine Adenolfo II° che fu l'ultimo dei castaldi, ed il primo dei conti Atenolfo d' Aquino. La contea di Atenolfo d'Aquino, preoccupata della crescente influenza che esercitava nella zona il Monastero di Montecassino, si pose in aperta ostilità con l'abate Aligerno. Questa ostilità si protrasse per molti anni anche tra i successori di Adenolfo II°. Infatti Adenolfo III° ebbe a contendersi con l'abate Mansone di Mntecassino, fondatore quest'ultimo del castello di Roccasecca. Il successore Adenolfo IV° si contese con l'abate Richero, in lotte durissime che portarono alla cattura e alla conseguente prigionia di quest'ultimo. In quell'anno, però, una terribile epidemia scoppiò in Aquino mietendo un gran numero di vittime tra cui il figlio di Adenolfo IV°, il conte Siconolfo III° che morì di peste. Il popolo credendo che l'epidemia fosse stato un castigo del cielo per le cattiverie subite dall'abbate Richero, volle che terminasse per sempre questa rivalità. Fu per questo che i fratelli Adenolfo V °e Landone II° andarono a Montecassino a pregare, perché cessasse l'epidemia. Adenolfo V° promise pace e fedeltà a Montecassino. Lo stesso Adenolfo V° fu nominato Duca di Gaeta, a Landone II gli fu assegnata la contea di Aquino, a Pandone I la contea di Vicalbo (Valle di Comino) ed a Landone III la contea di Pontecorvo. Il figlio di quest'ultimo, il conte Giovanni Scinto il 27-07-1066, ebbe l'investitura di San Giovanni Incarico da Riccardo I° principe normanno di Capua per la sua fedeltà dimostrata verso di loro avendo favorito al loro successo. Con il feudo presero il nome gentilizio San Giovanni che si tramandarono i vari successori con ereditarietà. Il documento originale dell'atto di donazione è conservato presso l'archivio di Montecassino e venne pubblicato parzialmente dallo Scandone ed in regesti dal Laccisotti. Come si rileva dal Pratillo padre Giacomo Erardo scrivendo di San Tommaso di Aquino tra gli elogi che gli professa, lo chiama conte di Aquino e del castello di San Giovanni. I figli di Giovanni Scinto che ereditarono il nome gentilizio di San Giovanni, adottarono una politica diversa da quella del padre, tanto che furono spodestati dai loro possessi dal principe di Capua che donò tutto a Marotta moglie di Goffredo Ridello normanno che fu Conte di Pontecorvo, Duca di Gaeta e Barone di San Giovanni Incarico. I Ridello e i loro successori non tennero per lungo tempo San Giovanni Incarico. In quel periodo nel 1138 durante il pontificato di Papa Innocenzo II, San Giovanni Incarico Isoletta e Falvaterra furono assediate e bruciate. Ma mentre il Papa era a San Germano a festeggiare la vittoria, veniva di sorpresa raggiunto dai Normanni e fatto prigioniero insieme alla sua scorta di Cardinali. Successivamente, venne liberato dopo però essersi impegnato a dare l'investitura regale a Ruggero II. Nel 1169 Barone di San Giovanni Incarico troviamo Rinaldo Boccavidello del ramo della casa di Aquino figlio di Adenolfo VIII Conte di Atina. Nel 1170 si verificò un terribile terremoto che fece tuonare le campane del paese senza arrecare però danni alle abitazioni. Ci fu chi disse che quei rintocchi delle campane volessero significare severo ammonimento per le popolazioni restie ad affrontare la lotta in Palestina per la difesa della Chiesa. Fu così che quando ci fu la spedizione in Terra Santa per la III crociata nel 1187, San Giovanni mandò un soldato, un altro per Rio Matrice con l'impegno di mandarne altri quattro. Le truppe capitanate da Federico Barbarossa parteciparono con 600.000 armati. Federico Barbarossa morì annegato nel 1190 nelle acque del fiume Salef in Cilicia regione storica dell'Asia minore, così la spedizione privata del suo valoroso combattente si ritirò rientrando frettolosamente in Italia. A Barbarossa successe Federico II, al quale, benché avesse solo 4 anni, gli assegnarono subito il titolo di re di Sicilia (1198) e di Germania (1212) e fu incoronato Imperatore di Germania nel 1220. Nel 1227 per volere del Pontefice, Federico II partì per la crociata in Terra Santa, ma subito dopo rientro in patria perché colpito da pestilenza. Gregorio IX, ritenendo la malattia una simulazione, gli comminò una scomunica. L'anno seguente nel 1228 Federico II partì nuovamente per la crociata dove ottenne pieni successi. Durante la sua assenza soldati del Pontefice detti chiavisegnati (a causa dei loro vestiti che portavano impressa sulla parte anteriore la chiave di San Pietro) occuparono tutti i suoi stati tra cui San Giovanni Incarico che a quel tempo era difeso dal Barone Bartolomeo da Supino. Occupate le città di San Giovanni Incarico Insula Pontis Solarati e Pastena, le truppe papaline avanzarono verso Fondi ma qui trovarono una imprevista resistenza da parte delle forze di Giovanni Poli le quali contrattaccando violentemente le truppe di Gregorio IX, le costrinsero ad una disastrosa ritirata fino a Ceprano. Federico II, intanto, dopo aver partecipato vittoriosamente alla VI Crociata in Palestina, rientrò in patria, ma qui a differenza di quanto sperava, non trovò alcuna riconoscenza da parte del papa, bensì venne dallo stesso pontefice battuto dato che su di lui ancora pesava la scomunica. Fu così che Federico II indignato dopo essersi vendicato di alcuni suoi seguaci, mosse guerra verso il Papa ma una eccezionale inondazione del Tevere attribuita al castigo di Dio, lo fermò alle porte di Roma, proprio quando la vittoria era ad un passo. Nel 1230 i due contendenti si riconciliarono, e prima di recarsi ad Anagni per ossequiare il pontefice Federico II, nella cappella di Santa Giusta (Isoletta) venne finalmente assolto da tutti i suoi peccati dal Cardinale Giovanni Di Sabina. Nel 1240 si riaccese la rivalità e Federico II diffidando sempre della correttezza delle truppe del Papa che spesso sconfinavano sul suo territorio decise di fondare una nuova città fortificata che prese il nome di Flagella detta comunemente Civita Flagella. Questo potente fortilizio sorse sulla sponda sinistra del fiume Liri, precisamente sulle alture prospicienti alla città di Ceprano, e venne abitata dalla gente dei paesi vicini San Giovanni Incarico, Arce, Isoletta e Pastena. La città si estendeva dalle colonnelle di Santa Giusta sulle rovine dell'antica città di Fregellae fino alla Civita, a sud di Insula Pontis Solarati. Fu in questo periodo che il nome di Insula Pontis Solarati si tramutò in Isoletta, che etnologicamente sta ad indicare un piccolo gruppo isolato di case oppure opera di fortificazione circondata da acqua. Nel 1243 Federico II soggiornò per alcuni giorni nella nuova città che ebbe un'esistenza molto breve, infatti alla morte di Federico II avvenuta in Puglia il 13/12/1250 Papa Innocenzo IV fece occupare e distruggere la città di Flagellae. Questo gesto irriguardoso irritò molto Corrado IV figlio di Federico II e nuovo successore al trono, il quale pur non essendo sufficientemente preparato, non esitò ad impugnare le armi contro il pontefice.


I gastaldati longobardi nel Lazio meridionale dei Principi Atenolfo
Testo secondo Tommaso INDELLI (Università di Salerno)


La ricostruzione dell'organizzazione istituzionale e amministrativa dei territori del Lazio meridionale appartenuti al principato longobardo di Benevento e, poi, alla contea-principato di Capua è strettamente connessa alla formazione, nei territori della Langobardìa minor, di "signorie territoriali", ovvero al problema della progressiva "polverizzazione" del potere pubblico, a seguito della suddivisione del principato unitario nelle tre compagini distinte di Benevento, Salerno e Capua. Secondo l'interpretazione storiografica "tradizionale", il fenomeno della formazione di "signorie territoriali" nel Mezzogiorno longobardo fu determinato, essenzialmente, dall'indebolimento del potere centrale delle dinastie principesche, causato da conflitti civili, dalle incursioni musulmane e dalle guerre continue che contrapponevano la Langobardìa all'impero bizantino (Cilento 1966: 5 - 15, Poupardin 1907: 10 - 25). La base per la costituzione di queste "signorie" sarebbe stata rappresentata dai possessi terrieri dell'aristocrazia longobarda e dal possesso di uffici dell'amministrazione dei principati: i signori, quindi, "privatizzando" e "dinasticizzando" gli uffici e le relative attribuzioni, crearono le basi per la formazione di veri e propri "principati territoriali" (Figliuolo 1992: 49)1 . L'insicurezza sociale, connessa ai conflitti suddetti, avrebbe favorito anche il fenomeno dell' "incastellamento" e l'aumento delle fortificazioni edificate dai signori divenne un ottimo strumento non solo di difesa, ma anche di controllo politico-amministrativo della popolazione (Cilento 1966: 5 - 15). Secondo la "schematizzazione classica", la formazione di vere e proprie signorie territoriali nel Mezzogiorno sarebbe individuabile nel passaggio, progressivo, dalla "signoria fondiaria" a quella "territoriale" (Cilento 1966: 5 - 15, Di Muro 2010: 70 - 75). La prima forma di potere - signoria fondiaria - consisteva nell'acquisizione legale o illegale, da parte dei signori, di potestà di tipo "pubblico" unicamente sui territori di loro esclusiva proprietà - dominium - e sulle comunità ivi stanziate, legate al signore, in genere, da rapporti di dipendenza economica di tipo contrattuale o consuetudinario. Questa tipologia di signoria sarebbe caratteristica della grande proprietà fondiaria (Di Muro 2010: 70 - 75, Rossetti 1977: 124 - 148). La seconda forma di potere signorile, molto più complessa - signoria territoriale o di banno - era caratterizzata dall'estensione del potere signorile ai territori e alle persone non direttamente pertinenti le proprietà fondiarie del signore, ma compresi in un vero e proprio territorio, il districtus. In quest'ultimo caso, il signore si trovava ad essere investito di poteri molto più ampi del semplice signore fondiario: i suoi poteri si configuravano come "territoriali", esercitabili su una superficie vastissima, comprensiva di nuclei rurali, cappelle, chiese, monasteri, centri urbani e altri fondi, medi o piccoli, che non facevano parte, stricto iure, del suo patrimonio personale (Cilento 1966: 5 - 15, Di Muro 2010: 70 - 75). In ogni caso, il processo di progressivo passaggio dalla signoria fondiaria - Landsherrschaft - alla signoria territoriale - Gerichtsherrschaft - nella Langobardìa minor, si inquadrerebbe sullo sfondo di una società estremamente conflittuale e teatro di intense trasformazioni politiche, istituzionali e socio-economiche (Cuozzo 1987: 259 - 274, Loré 2004: 30 - 45, Martin 1980: 563 - 570, Poupardin 1907: 10 - 25). Questo costituisce lo "schema generale", secondo la storiografia sul tema, della formazione delle signorie nel Mezzogiorno longobardo, schema che, come tutti gli schemi, pecca di generalità non tenendo conto del peso delle specificità locali nei fenomeni di frammentazione e riaggregazione dei poteri in forme nuove. L'indagine in esame intende soffermarsi sull'analisi dei processi che nel basso Lazio portarono alla formazione di gastaldati longobardi, come Aquino e Sora, resisi progressivamente indipendenti dal potere centrale dei principi di Capua, fino a costituire, nel X sec., vere e proprie signorie territoriali dotate di autonomia politica . Si conosce pochissimo della genesi dei gastaldati longobardi nella valle del Liri e in Val di Comino. In realtà sembra che, in origine, il gastaldato fosse uno solo, con capoluogo Sora, attualmente in provincia di Frosinone, conquistata assieme ad Arce e ad Arpino, nel 702, dal duca di Benevento, Gisulfo I (689-706) (Corradini 2004: 330, Paul. HL, VI, 27)5 . I territori annessi vennero organizzati in un gastaldato unico con capoluogo Sora, gastaldato che è menzionato, all'epoca della Divisio Ducatus dell'849, tra i gastaldati ricompresi nel principato di Salerno. All'interno dei confini del gastaldato era ricompresa, molto probabilmente, anche Aquino, annessa ai possedimenti beneventani, se non nel 702, già nel VI sec., al momento della distruzione dell'abbazia di Montecassino ad opera del duca Zotto (Paul. HL, IV, 17, Gasparri 1988: 44 - 45). Fino al 702 i centri suddetti rientravano nel ducato bizantino di Roma, che era parte del più ampio esarcato ravennate, appartenente all'impero bizantino. A partire dal 702 e fino al 787, anno della morte di Arechi II, primo principe di Benevento, non si conoscono nomi di gastaldi del Lazio meridionale (Corradini 2004: 330 - 335, Di Muro 2010: 10 - 11). Si deve però ricordare che, nel 787, Carlo Magno (768-814) ratificò un trattato di pace con il principe beneventano, in base al quale era prevista la rinuncia ad una serie di territori della Langobardìa a favore di papa Adriano I (772-795) (Gasparri 1988: 44 - 45, Indelli 2010:104 - 105). Tra questi territori, oltre Capua e Teano, erano contemplati proprio Arce, Sora e Aquino, ma né Arechi II, né i suoi successori pensarono di restituire al pontefice quanto pattuito (Gasparri 1988: 44 - 45, Indelli 2010: 104 - 105). Nell'849, al termine del conflitto decennale tra Benevento e Salerno (839-849) che segnò la scissione in due principati distinti del principato unitario di Benevento, il gastaldato di Sora fu assegnato alla sfera di influenza salernitana (Di Muro 2010: 10 - 11, Martin 2005: 50 - 55). Ben presto, però, Sora e il basso Lazio sarebbero passati sotto il dominio della contea di Capua, all'epoca retta da Landolfo I (Erch., 15). Questi, già gastaldo, assunse il titolo di conte di Capua e cominciò ad agire indipendentemente da Salerno, suscitando la reazione del principe Siconolfo (839-851 ca.) che, tuttavia, non poté ridurre l'avversario all'obbedienza (Di Resta 1988: 145 - 150, Erch., 14). Morto nell'843 Landolfo, la contea capuana passò al figlio, Landone I (843-860), che affidò il gastaldato di Sora al fratello, Landonolfo (Erch., 21-22). Questi governò Sora fino all'858, quando fu spodestato dal duca di Spoleto, che acquisì al suo dominio Sora, Arce, Arpino, Atina, Vicalvi, annettendo buona parte del Lazio meridionale ai suoi possedimenti (Erch., 47). Nonostante l'annessione di Sora e del suo territorio al ducato di Spoleto, rimase, invece, longobarda Aquino, che divenne il nuovo capoluogo gastaldale (Di Muro 2010: 10). I suddetti territori rimasero sotto il dominio spoletino fino alla seconda metà del X sec. e ritornarono sotto la sovranità di Capua durante il Principato di Pandolfo I Capodiferro (961-981) che ottenne dall'imperatore Ottone I (936-973) anche il possesso del ducato di Spoleto (967 ca.) (Cilento 1966: 70, Di Resta 1983: 30 - 55)6 . Ed è proprio sotto il Capodiferro che l'organizzazione e la ripartizione del territorio del principato di Capua in contee raggiunse una forma definitiva (Cilento 1966: 70)7 . Intorno al 970, quando Sora ritornò in possesso di Capua, è attestato un conte Ildeprando, figlio del gastaldo Ratchis, al governo della città, capoluogo dell'omonima contea (CMC, II, 6). Sora, quindi, non fu riaggregata al gastaldato di Aquino, ma andò a costituire una contea autonoma . Di Ildeprando comes non si sa nulla, esclusa la paternità, pertanto è impossibile ricostruire una "genealogia" del personaggio (CMC, II, 6). Nel 980, comunque, Ildeprando era morto, perché ai vertici della contea c'era il fratello, Ratchis (CMC, II, 6). La contea di Sora, agli inizi dell'XI sec., tentò di mantenersi fedele alla politica dei principi capuani, subendo incursioni ad opera dei Normanni, ma anche dei conti della Marsica che, più volte, ma sembra senza continuità, riuscirono ad assicurarsi il controllo di parti importanti della contea, occupandone porzioni di territorio e tessendo legami familiari con i conti (Di Muro 2010: 13 - 14, Sennis 1994: 5 - 35). Tuttavia, la frammentarietà delle informazioni possedute sulle vicende della contea di Sora, nella prima metà dell'XI sec., non consente di stabilire se vi fosse una continuità, almeno dinastica, tra i conti attestati tra la metà del X sec. e quelli dell'XI sec., i quali portavano antroponimi nuovi - Rainerio, Pietro, Gerardo - molte volte comuni a quelli dei conti della Marsica, sotto la cui influenza Sora era caduta (Sennis 1994: 5 - 35). Nella contea di Sora erano compresi anche i centri di Arpino, Vicalvi e Atina. Atina, poi, andò a costituire, dal 977, una contea autonoma (Di Muro 2010: 13 - 14). Infatti, è nel 977, che si ha, per la prima volta, notizia di una chiesa di S. Giorgio ubicata in comitatu atinense (CV, II, 173 - 174). Della storia della contea di Atina non si conosce molto, pertanto è difficile ricostruirne, in dettaglio, le vicende. Di Sora si può dire di più, anche se non si conoscono le ragioni specifiche che indussero il Capodiferro a promuovere Sora da gastaldato a contea. L'influenza amministrativa franca, forse, può costituire un'ipotesi, in quanto è probabile che Sora e il suo territorio fossero stati già ordinati in contea durante la dominazione dei Guidi di Spoleto (Sennis 1994: 5 - 35). Sta di fatto che l'origine di questa contea sembra essere decisamente "funzionariale", pilotata dall'alto, dalla politica dei principi di Capua, in quanto la concessione a Ildeprando del titolo di comes Sorae sembra essere stata fatta proprio dal principe Pandolfo I e non per ratificare uno stato di cose già esistente (CMC, II, 6, Sennis 1994: 5-35). L'organizzazione della contea di Sora ricomprendeva alcune circoscrizioni minori: il gastaldato di Vicalvi e la "viscontea" di Arpino, affidata al governo di un vicecomes (CV, II, 173 - 174). Non si è in grado di stabilire che tipo di rapporto istituzionale intercorresse tra il conte e i titolari di queste "sotto-circoscrizioni", cioè se fossero anch'essi investiti di pieni poteri di governo dei rispettivi territori (Sennis 1994: 35). Il gastaldato di Vicalvi è attestato, per la prima volta, nel 980, affidato al gastaldo Ratchis, fratello del conte di Sora in carica, Ildeprando (CMC, II, 6). Agli inizi dell'XI sec. la contea di Sora subì una vera e propria "metamorfosi" istituzionale, poiché fu trasformata in gastaldato. Non si hanno informazioni precise che consentano di rilevare se al cambio di denominazione si accompagnò anche una modifica delle funzioni e dei poteri del conte-gastaldo ma, soprattutto, ne sono ignote le ragioni, ricostruibili solo in via ipotetica. Come si è detto, la contea di Sora era caduta sotto l'influenza dei conti della Marsica che ne avevano occupato porzioni di territorio, imparentandosi con alcuni degli esponenti della famiglia comitale, attraverso lo strumento delle alleanze matrimoniali e profittando delle tristi vicende che funestarono il principato di Capua dopo la morte del Capodiferro, nel 981 (Cilento 1966: 70 - 85, Sennis 1994: 5 - 35). La penetrazione dei conti della Marsica nella contea iniziò alla fine del X sec., attraverso l'acquisto di alcuni beni ubicati nel territorio comitale, intorno al 987 (Sennis 1994: 112). Nel 988, il conte dei Marsi tenne un placito a Sora, capoluogo della contea (Volpini 1975: 329 -331). Forse, nel tempo, i conti di Sora furono costretti a riconoscere l'autorità dei conti della Marsica e iniziarono ad esercitare i loro poteri a titolo di "delegati" e, quindi, di gastaldi, non più di conti (Di Muro 2010: 13 - 16). Agli inizi dell'XI sec., è attestato il nome del gastaldo Pietro (1008 ca.), genero di Oderisio, conte dei Marsi, che risiedeva sempre più spesso a Vicalvi, anziché a Sora (Di Muro 2010: 13 - 16). Dopo la morte di Pietro (1020 ca.), primo "gastaldo" sorano a noi noto, gli successe Rainerio gastaldeus Soranae civitatis, forse suo figlio, che donò a Montecassino alcune terre ubicate a Isola del Liri e Rainerio è indicato, in una fonte, come "marchese" (Am. HN, I, 32 - 33, CMC, II, 32, Sennis 1994: 122 - 123). A Rainerio successe il figlio, Pietro II (ca.1030-1034), avversario dei Normanni che proprio in quel periodo si erano stanziati a Gallinaro, nel territorio di Atina, e compivano incursioni ai danni del gastaldato sorano (Sennis 1994:122 - 123). Dopo Pietro II è attestato Girardus - Petri filius - ricordato anche come dominus Sorae e ancora vivente nel 1043 (Antonelli 1986: 221 - 222). Non sembra che il titolo di dominus Sorae avesse un preciso significato "istituzionale" e, molto probabilmente, si trattava di un semplice titolo onorifico, cumulabile con quello di comes o gastaldus Sorae. Nonostante le ingerenze dei conti della Marsica, Gerardo combatté al servizio del principe di Capua, Pandolfo IV (1026 ca.-1049), nella guerra contro il duca di Napoli, Sergio IV (1005-1038) (Sennis 1994:122 - 123). Il fatto che il principe di Capua avesse potuto mobilitare le milizie del gastaldato di Sora, nella guerra contro Napoli, dovrebbe indurre a riflettere: i poteri e il ruolo del principe, quindi, non erano così "formali" e "vuoti", come pure si è sostenuto, perché Pandolfo poteva ordinare o, comunque, pretendere aiuto militare da uno dei numerosi conti del suo principato, sebbene il gastaldato-contea di Sora fosse caduto sotto l'influenza dei conti della Marsica (Di Muro 2010: 14 - 15). Mentre Sora gravitò, come si è visto, intorno ai conti della Marsica, Atina, contea dal 977, sembra aver sempre condiviso il destino di Capua (Trigona 2003: 42). I conti di Atina, infatti, conservarono sempre il titolo di comes, rispetto a quelli di Sora, passati a quello gastaldale. Ancora agli inizi dell'XI sec. è attestato un conte ad Atina, intorno al 1032, e ciò dimostra che la contea continuava ad essere "autonoma" rispetto a Sora, non condividendone le vicende politiche. Il conte era Agelmondo, parente del principe di Capua Pandolfo IV (Gattola 1733: 205). Venendo ad Aquino, è intorno all'860 che è attestata la presenza del primo gastaldo conosciuto, Rodoaldo (Grossi 1907: 179, Scandone 1908: 10). Questi edificò un castrum, Pontecorvo, a protezione del territorio affidatogli dal conte di Capua, Landone I (843-860) (Erch., 21-25). L'edificazione di un centro fortificato presso il "Ponte Curvo", sul Liri, lungo il percorso della via Latina, era la chiara manifestazione di come anche il potere di Rodoaldo andava evolvendosi, progressivamente, in forme "signorili", poiché, generalmente, l'edificazione di un castrum accompagnava il consolidamento del potere del gastaldo (Di Muro 2010: 11, Grossi 1907: 179)9 . Di Rodoaldo non si sa molto, se apparteneva all'aristocrazia della contea capuana e se aveva legami parentali o di altro tipo con i conti di Capua. Si sa, invece, che fu attivo fino agli anni 80 del IX sec. e che, profittando del caos generale in cui era sprofondata la contea di Capua durante il governo del comes et praesul, Landolfo II (863-879), in perenne lotta con i nipoti, avviò una politica sostanzialmente autonoma, volta a procacciarsi alleanze, clientele militari e territori, a spese delle contea di Capua e del cenobio cassinese (Erch., 20-22). Questa situazione durò fin quando non fu spodestato da Magenolfo, personaggio quasi del tutto sconosciuto, forse di origini franche, chierico, e che si fece gastaldo di Aquino. Assieme alla moglie, Ingena, nipote di Ludovico II (855-875), Magenolfo era giunto nel Mezzogiorno, al seguito dell'imperatore, probabilmente durante la campagna contro i Saraceni di Bari (869- 871) (Grossi 1907: 179)10. In seguito, terminata la campagna militare e alla ricerca di una dimora stabile, Magenolfo si era trasferito a Salerno, ospite del principe Guaiferio (ca. 861-881). Dopo una breve permanenza a Salerno, Magenolfo fu invitato da Rodoaldo a trasferirsi ad Aquino (880 ca.), con la moglie e un folto gruppo di seguaci, ma in cambio dell'ospitalità, il gastaldo di Aquino volle che Magenolfo e i suoi dessero un contributo alla difesa del gastaldato dalle incursioni saracene (Grossi 1907: 180)11. L'invito a Magenolfo, forse, sottintendeva una politica filofranca da parte del gastaldo aquinate. Magenolfo accettò il patto, abbandonò Salerno, raggiunse Aquino e si insediò a Pontecorvo e, poco dopo, in accordo col duca di Spoleto, si impossessò di tutto il gastaldato, catturando Rodoaldo che fu liberato solo dietro insistenza dell'abate di Montecassino, Bertario (856-883) e, in cambio dei buoni uffici prestati dall'abate per la sua liberazione, Rodoaldo fu costretto a monacarsi a Montecassino dove finì i suoi giorni (Grossi 1907: 180). Se si accettasse l'ipotesi di un'origine franca di Magenolfo, si dovrebbe ammettere l'instaurazione, ad Aquino, di una stirpe gastaldale franca, non longobarda, almeno fino all'887, quando ci si imbatte in un nuovo gastaldo (Grossi 1907: 181). Morto Magenolfo, nell'887, fu Rodiperto ad assumere la guida del gastaldato. Anche di Rodiperto si sa poco, ma è probabile che la sua ascesa al gastaldato di Aquino fosse dovuta all'aiuto fornito al conte di Capua, Atenolfo I (887-910), che proprio in quell'anno si impossessò della contea dopo aver deposto il fratello, Landone III (Grossi 1907: 180). Atenolfo, in seguito, avrebbe innalzato Capua a principato, incorporando quanto restava del principato di Benevento (Hirsch, Schipa 1968: 185 - 190). Rodiperto di Aquino avviò rapporti di collaborazione con il ducato di Gaeta che, proprio in quegli anni, andava acquisendo la sua indipendenza da Napoli cui fino ad allora, era appartenuta la città (Grossi 1907: 180 - 181, Scandone 1908: 49 - 50). L'intesa con la dinastia gaetana, che durò fino alla metà dell'XI sec., si concluse, come si vedrà, con l'unione dinastica del ducato alla contea aquinate. Infatti Rodiperto sposò la figlia dell'ipato di Gaeta, Docibile I (ca. 890-906). Assieme a Docibile, il conte avviò una politica aggressiva, di espansione territoriale in direzione dei possedimenti cassinesi, provocando le reazioni del papato e dell'abate, Aligerno (949-986) (Grossi 1907: 180 - 181). Nel 949, morto Rodiperto, il nuovo gastaldo di Aquino fu il nipote Atenolfo, che, per primo, assunse il titolo di conte (Grossi 1907: 181). Atenolfo, ricordato come vir strenuissimus, morì alla fine del X sec., probabilmente intorno al 985 (Borsari 1961: 25 - 27, CMC, II, 1). Ad Atenolfo è attribuibile anche la costruzione della residenza fortificata dei conti - Aquinense praetorium - ubicata di fronte al sito della città romana, e di altri importanti siti fortificati della contea come Roccasecca e Castrocielo (Grossi 1907: 181). Il conflitto tra il conte aquinate e l'abate di Montecassino, Aligerno, già iniziato sotto il predecessore Rodiperto, assunse, con Atenolfo, caratteri veramente preoccupanti (Fabiani 1950: 61 - 70). Il conte fu autore di continue usurpazioni di terre e uomini ai danni dell'abbazia cassinese e ciò spinse l'abate a sollecitare, ripetutamente, l'aiuto del principe di Capua, Landolfo II (943-961) (Borsari 1961: 25 - 27, Grossi 1907: 181). L'abate arrivò anche a citare, davanti al tribunale del principe, il conte di Aquino, dimostrando, in tal modo, di credere ancora all'esistenza di un rapporto di subordinazione tra il princeps e i suoi conti. Tuttavia ciò che credeva l'abate non necessariamente corrispondeva alla realtà. Inoltre, il principe di Capua si comportava ambiguamente: da un lato interveniva militarmente senza risultati contro il conte aquinate, dall'altro rilasciava diplomi all'abate Aligerno, con cui confermava i tradizionali privilegi del cenobio, intimando al conte di cessare l'occupazione dei territori cassinesi e di non sottrarre uomini, poiché gli uni e gli altri erano sotto l'alta protezione di Capua (Borsari 1961: 25 - 27, Fabiani 1950: 61 - 70, Scandone 1908: 57- 58). Distrutta Rocca Janula, edificata dall'abate cassinese, Atenolfo arrivò al punto di catturare ed imprigionare Aligerno che fu condotto ad Aquino ed esposto al pubblico ludibrio (CMC, II, 1, Borsari 1961: 25 - 27, Scandone 1908: 54-56). Aligerno chiese l'aiuto di Landolfo II, principe di Capua, che constatata l'impossibilità di convocare davanti al suo tribunale Atenolfo, decise di chiamare in soccorso il principe di Salerno, Gisulfo I (943-977), con cui, all'epoca, era in guerra. Sospese le ostilità, e dopo un lungo assedio, i principi si impossessarono della città, nel 953. Atenolfo fuggì a Gaeta e l'abate cassinese fu liberato (Grossi 1907: 181, Scandone 1908: 57-58). Il conte ritornò poco tempo dopo ad Aquino, ma solo dopo aver fatto formale atto di sottomissione al principe di Capua, cui si presentò in veste di supplice. Atenolfo riebbe la contea, ma dovette impegnarsi solennemente a restituire al cenobio cassinese molte delle terre e degli uomini che sia lui che i suoi predecessori avevano illegalmente sottratto (Borsari 1961: 25 - 27, Grossi 1907: 181)12. Nel 960 Atenolfo associò il figlio Guido Atenolfo al potere e gli conferì il possesso di Pontecorvo che, dopo la sua morte, divenne una contea autonoma da Aquino, governata da Guido Atenolfo, ricordato come Domini providentia comes civitatis Pontis Curvis (Gattola 1733: 293, Scandone 1908: 60)13. A Guido Atenolfo subentrarono i nipoti. Il secondogenito Atenolfo (II), ereditò la contea aquinate (985-1018 ca.). La stirpe comitale di Pontecorvo che risaliva ad Atenolfo I ebbe breve durata e sopravvisse fino agli inizi dell'XI sec., quando Pontecorvo ritornò al ramo principale dei conti di Aquino. Le ultime notizie di Atenolfo II datano al 1018, data della sua presumibile morte (Grossi 1907: 182 - 183). Dopo la morte di Atenolfo II, la contea attraversò un periodo convulso di cui restano poche testimonianze. Tuttavia, Aquino sopravvisse alle incursioni normanne e ai conflitti che contrapposero i principi di Salerno e di Capua, mantenendo anche forti legami con i duchi di Gaeta. Sotto il governo di Atenolfo V (I di Gaeta, 1035-1062), Aquino e Gaeta furono unite sotto un'unica potestà (Borsari 1962: 25 - 27, Delogu 1988: 145 - 150, Fedele 1904: 25 - 40). Atenolfo V fu protagonista indiscusso dei drammatici eventi che caratterizzarono il principato capuano agli inizi dell'XI sec.14. Inizialmente, si legò al principe di Capua Pandolfo IV, e non solo politicamente, avendone sposato la figlia, Maria. Al principe di Capua, il conte di Aquino fu a lungo fedele, salvo, in seguito, passare nelle grazie di Guaimario IV, principe di Salerno (Borsari 1962: 35 - 36, Grossi 1907: 182 - 183). Quando, nel 1038, Pandolfo, deposto dall'imperatore Corrado II (1024-1039), fuggì a Costantinopoli, il principato di Capua passò nelle mani del principe di Salerno, Guaimario. Oltre al territorio di Capua, c'era anche Gaeta che Pandolfo IV aveva occupato (1032), sottraendola agli ultimi duchi, e ne aveva affidato il governo al conte normanno di Aversa, Rainulfo Drengot (1030-1045) (Borsari 1962: 35 - 36, Fedele 1904: 25 - 40). Atenolfo resistette a Guaimario, finché non fu catturato dal conte di Teano. Poco dopo, però, fu liberato dalla prigionia e ritornò ad Aquino, dove continuò ad alimentare la resistenza contro Guaimario, con l'aiuto del principe di Capua Pandolfo che, morto Corrado II, era ritornato in Italia, deciso a riconquistare il principato anche con l'aiuto dei Normanni (Grossi 1907: 182 - 183, Hirsch, Schipa 1968: 280 - 281). Il conte d'Aquino - come i suoi predecessori - indirizzò le sue mire espansionistiche verso la Terra Sancti Benedicti, usurpando i territori dell'abbazia cassinese, tra cui il castrum di S. Angelo in Theodice (Borsari 1962: 35 - 36, Grossi 1907: 183 - 184). Nel 1045, Atenolfo era stato riconosciuto anche duca di Gaeta che aveva occupato dopo la morte di Rainulfo Drengot che reggeva il ducato in nome di Guaimario. Allora Guaimario sconfisse Atenolfo che, fatto prigioniero una seconda volta, fu condotto a Salerno (Borsari 1962: 35 - 36). Vista la situazione totalmente pregiudicata, il conte di Aquino decise di cambiare schieramento e, in cambio della sua fedeltà, il principe di Salerno lo investì del ducato di Gaeta, così che Atenolfo V divenne "conte e duca", rispettivamente di Aquino e di Gaeta, dal momento che l'unione delle due compagini era puramente personale (Borsari 1962: 35 - 36, Fedele 1904: 35 - 40, Grossi 1907: 182 - 183). Per consolidare il legame politico con Salerno, la figlia di Atenolfo, Emilia, sposò il figlio di Guaimario, Landolfo, e ciò consentì ai conti di Aquino di conservare il possesso di Gaeta fino al 1064. Inoltre, il conte si impegnò con Guaimario a non assalire più i possedimenti dell'abbazia cassinese e a diventare tutore del cenobio (Borsari 1962: 35 - 36, Grossi 1907: 185 - 186). Questo mutamento di alleanze costrinse Pandolfo di Capua a muovere guerra ad Atenolfo, ma, ormai isolato, il principe morì nel 1049, senza essersi riconciliato con il genero (Borsari 1962: 35 - 36). Nel frattempo, su Aquino e Gaeta incombeva l'espansione militare dei conti normanni di Aversa, dal 1059 anche principi di Capua (Hirsch, Schipa 1968: 285 - 287). Nel 1053 il conte d'Aquino aveva combattuto al fianco di papa Leone IX (1049- 1054),nella sfortunata battaglia di Civitate contro i Normanni, dimostrando di essere diventato ligio ai dettami del papato e che apparivano lontani i tempi in cui aveva perseguitato i monaci e la Chiesa (Borsari 1962: 35 - 36, Hirsch, Schipa 1968: 287)15. Morto Atenolfo V nel 1062, gli successe il figlio, Atenolfo VI (II di Gaeta), sotto la reggenza della madre, Maria, ma il suo governo fu di breve durata. Nel 1064, infatti, fu deposto dal normanno Riccardo Drengot, principe di Capua, e fuggì a Pontecorvo assieme alla madre (Borsari 1962: 35 - 36, Delogu 1988: 145 - 150, Grossi 1907: 185 - 186). Riccardo di Capua aggregò Aquino e Gaeta al principato, investendone del governo il genero Guglielmo di Montreuil e, poco dopo, morto Guglielmo, ne investì Goffredo Ridell, divenuto anche conte di Pontecorvo (1065) (Borsari 1962: 35 - 36, Delogu 1988: 145 - 150, Fedele 1904: 35 - 40). Il normanno Goffredo Ridell era dunque duca di Gaeta e conte di Aquino e Pontecorvo, di cui conservò il possesso fino al 1070 ca., quando fu reinsediata la dinastia originaria nella persona di Atenolfo VII (Borsari 1962: 35 - 36, Grossi 1907: 185 - 186)16. Per concludere, e anche sulla base degli eventi descritti, si può affermare che non è possibile ravvisare alcuna linearità o coerenza politica nella condotta dei contigastaldi del basso Lazio, se non quella dettata dalla necessità di salvaguardare al meglio i propri domini, oscillando tra la fedeltà formale ai principi di Capua e i continui tentativi di ribellione al loro potere. I conti agivano, nella gran parte dei casi, in piena autonomia e sempre nel rispetto delle opportunità politiche del momento, pertanto non era raro - ed è attestato per i conti di Sora - che i conti longobardi si piegassero alle direttive principesche solo per il proprio tornaconto, a seconda delle circostanze e delle convenienze. Molte volte erano le attitudini di comando e il carattere dei conti a determinare il loro atteggiamento verso il "potere centrale" (Di Muro 2010: 40 - 55). Quella dei rapporti tra "periferia" e "centro" era una realtà in continua evoluzione e mutamento, non cristallizzabile in formule fisse. Tuttavia, restava sempre Capua il centro del potere principesco, il punto di riferimento dei signori di Aquino, Sora, Vicalvi, Pontecorvo, almeno nel comportamento e nel cerimoniale comitale (Di Muro 2010: 40 - 55). Le vicende riguardanti i conti d'Aquino costituiscono l'esempio più evidente di come la struttura politico-amministrativa delle contee e l'operato dei conti si esemplavano - per una questione di prestigio, di status e di convenienza politica - su quello della "primigenia" contea di Capua (Di Muro 2010: 40 - 55). L'instaurazione del dominio normanno, inoltre, non comportò un totale stravolgimento dell'assetto istituzionale del principato di Capua. I Normanni agirono sempre "empiricamente", adeguandosi alle necessità e alle opportunità del momento. Molte dinastie comitali longobarde sopravvissero alla conquista e, tra esse, proprio i conti di Aquino che, dopo un breve periodo di perdita dei propri domini, riottennero i loro possessi, seppure privati del ducato gaetano e di alcuni territori assegnati dai Normanni al cenobio cassinese (Grossi 1907: 185 - 186). Tralasciando Aquino, le contee di Sora e Atina persero il loro status iniziale (Grossi 1907: 185 - 186). Sora, con il suo territorio, venne assegnata al demanio principesco e cessò di essere designata come comitatus, mentre Atina venne assegnata a Montecassino dai principi capuani (Grossi 1907: 185 - 186). Solo agli inizi degli anni 90 dell'XI sec., durante una grave ribellione dell'aristocrazia capuana contro i principi normanni, i conti di Aquino cercarono di riguadagnare l'antica potenza, occupando Sora e il suo territorio che, tuttavia, furono efficacemente difesi da Gionata, fratello del principe di Capua, Giordano Drengot (1078-1090). Sora, quindi, rimase in possesso dei Normanni (Grossi 1907: 185 - 186). Si badi che l'origine delle contee longobarde non è ravvisabile, necessariamente, nella privatizzazione di un ufficio pubblico. Spesso i poteri del signore derivavano da quelli che, de facto, esercitava sui suoi sottoposti "economici", cioè su coloro che popolavano le sue curtes. La concessione dell'ufficio - in genere il titolo comitale - da parte del principe longobardo, subentrava in un secondo momento, al fine di "legittimare" dall'alto un'assunzione di poteri che, invece, procedeva "dal basso". In tal modo, si tentava di frenare le spinte centrifughe dell'aristocrazia longobarda "di provincia" (Di Muro 2010: 70 - 75, Figliuolo 1991: 26 - 35).2 Il signore esercitava sugli uomini della sua "signoria" pieni poteri di carattere "pubblico", ma, in genere, non si limitava solo a quelli, poiché rivendicava anche l'esercizio di specifici monopoli detti "bannalità". Si trattava del diritto del signore di pretendere che tutti i suoi sudditi si servissero, previo pagamento di un censo, dei mulini, dei forni, dei frantoi, degli aratri di sua proprietà, così da condizionare fortemente lo sviluppo del tessuto economico della signoria, arrivando anche a riscuotere corvées - prestazioni d'opera - ben oltre le sue proprietà. Le "bannalità" e gli altri privilegi economici che il signore si riservava, assieme alle imposte personali o reali che riscuoteva, costituivano ottime fonti di reddito e qualificavano la "signoria" non solo come un microcosmo politico, ma anche economico (Cilento 1966: 5 - 15, Di Muro 2010: 70 - 75). 3 Attualmente, in sede storiografica, la formazione di "signorie territoriali" nel territorio della Langobardìa minor è da ricondurre a due interpretazioni distinte: la prima, quella "tradizionale", risalente al Cilento, vede nei comitati l'esito di un processo di formazione signorile che partì "dal basso", cioè dal possesso di terre e di uomini e dall'incastellamento degli stessi, per approdare, infine, al riconoscimento formale del titolo comitale, da parte dei principi. La seconda interpretazione, detta "funzionariale", vede nelle contee delle articolazioni amministrative dei principati longobardi, volute proprio dai principes, al fine di controllare le spinte centrifughe che provenivano dall'aristocrazia terriera longobarda. Con la concessione del titolo di comes, infatti, i principi longobardi miravano a costituire vaste clientele politiche e militari, evitando che il potere dell'aristocrazia terriera assumesse connotazioni "anarchiche", pericolose per l'unità e la stabilità istituzionale dei loro domini. Quest'ultima interpretazione è sostenuta, oggi, dalla maggioranza degli studiosi, i quali tendono a ricondurre il fenomeno signorile, nel Mezzogiorno, ad una dimensione più contenuta rispetto al passato, ridimensionando anche la diffusione dell'incastellamento, e a riconoscere la forza aggregante e unificante che, nei confronti dei signori, il potere dei principi longobardi avrebbe conservato, nonostante la frantumazione territoriale dei poteri, in virtù di una persistenza del senso del publicum, cioè dello "stato", di tradizione basso-imperiale, e nonostante gli sconvolgimenti del IX e X sec. Secondo l'interpretazione del Cilento i principati longobardi, al termine di tale processo di progressiva frantumazione, continuarono a rivestire il ruolo di "riferimento identitario" per le rispettive "signorie", ormai avviate ad una sostanziale autonomia dal centro politico-istituzionale rappresentato dalle capitali e dalle relative corti: Benevento, Salerno, Capua. Non è un caso che nei documenti ufficiali redatti dalle cancellerie comitali, si faccia spesso riferimento agli anni di governo del principe in carica come sistema di datazione degli atti. Secondo il Cilento i principi cessarono di esercitare, nella gran parte dei casi, ogni potere sui distretti territoriali finiti in mano ai conti e sarebbero diventati figure semplicemente "rappresentative" di una fantomatica identità e unità longobarda del Mezzogiorno. Il principato di Salerno, rispetto a Capua e Benevento, avrebbe conservato, evitando eccessive frammentazioni, una maggiore compattezza ed autorità, e ciò fu probabilmente dovuto alla specifica conformazione territoriale e alla minor presenza di città sul suo territorio (Cilento 1966: 5 - 15, Di Muro 2010: 70 - 75, Figliuolo 1992: 49, Tabacco 1979: 160 - 175). 4 La stessa contea capuana si costituì in entità autonoma da Salerno, progressivamente, attraverso l'incastellamento del territorio, prassi seguita anche da molte altre contee della Langobardìa. Landolfo I di Capua edificò, a nord del Volturno, il castro di Sicopoli, in onore del principe beneventano, Sicone I (817-832). Sicopoli, piuttosto, avrebbe dovuto essere denominata "Rebellopoli", per le ragioni che erano dietro quell'edificazione (Cilento 1966: 20 - 35, Erch., 15). La valle del Liri era decisamente urbanizzata, ricca di antichi municipia romani e rappresentava - dal punto di vista strategico - una via importantissima di accesso al cuore del principato beneventano e, poi, capuano. Fino al 1927, gran parte dei territori basso-laziali appartenenti alla Langobardìa minor, da un punto di vista amministrativo, erano compresi nella Provincia di Caserta (De Minicis 1976: 111 - 115, Trigona 2003: 20). Nel 966 Capua era stata innalzata al rango di metropoli ecclesiastica. Nella metropoli di Capua rientravano anche le diocesi di Aquino e Sora, nel basso Lazio. Al momento dell'istituzione della metropoli capuana le diocesi suffraganee erano probabilmente Atina, Aquino, Sora, Sessa, Teano, Carinola, Calvi, Caiazzo, Caserta, Venafro, Isernia (Di Muro 2010: 47). 7 Il titolo di comes, conte, desunto dalla burocrazia tardoimperiale, è attestato nella Langobardìa minor fin dal VII sec., come ci dice Paolo Diacono (che scrive nell'VIII), per designare ufficiali longobardi preposti al governo di distretti territoriali e amministrativi. Si ricordino Trasamundo e Mitola, entrambi conti di Capua. Sembra che il titolo di "conte", fin dalle origini, fosse differente da quello di gastaldo, benché, talvolta, figurino insieme, comes et gastaldus. La differenza risiedeva, presumibilmente, nel fatto che il conte era il signore, a tutti gli effetti, del territorio compreso nella contea, godeva di pieni poteri di governo e del diritto di trasmettere gli stessi ai discendenti. Il gastaldo, invece, era un semplice amministratore, tesi probabilmente confermata dal fatto che, nelle stesse contee, risiedevano gastaldi di nomina comitale. Il titolo comitale, comunque, inizia ad emergere prepotentemente nella compagine capuana alla fine del IX e agli inizi del X sec., cioè all'epoca della trasformazione della contea in principato (900). Il titolo, in genere, veniva elargito dai principi capuani a fideles, familiari o meno, anche al fine di creare una sorta di "appannaggio" che compensasse l'esclusione dei "rami collaterali" della dinastia capuana dalla successione al principato. Altre volte, invece, la concessione del titolo serviva a ratificare l'esercizio di poteri sul territorio e sugli uomini che, de facto, era già una realtà. (Di Muro 2010: 43 - 45, Paul. HL, IV, 51, V, 9). Non abbiamo alcuna informazione sicura, per quanto riguarda le contee basso-laziali, di conti longobardi che cumulavano il titolo di comes con altri uffici pubblici, eventualmente appartenenti alla "burocrazia centrale " del principato di Capua, mentre fatti del genere sono attestati per altre contee, ad esempio Teano. Il primo comes di Teano era anche comes palatii, rivestiva, cioè, una carica pubblica presso l'amministrazione palaziale capuana (Di Muro 2010: 14 - 20). Non si dimentichi che il fenomeno dell'incastellamento nei territori del Lazio longobardo era legato non solo ad esigenze di difesa militare e di controllo politico del territorio da parte dei comites, ma anche ad esigenze economiche connesse all'edificazione dei castra, soprattutto in un periodo di crescita demografica e di progressivo sviluppo economico. L'edificazione di centri fortificati era anche dovuta all'esigenza di attirare coloni che lavorassero, bonificassero e coltivassero la terra. Tutto ciò, infatti, corrispondeva agli interessi dei signori di ingrandire i possedimenti e di popolare territori deserti. Una maggiore produttività, connessa ad un maggior numero di sudditi, significava avere maggiori risorse da tassare e di cui disporre (Toubert 1995: 307 - 310). L'antroponimo, molto diffuso nel Mezzogiorno, non esclude che Magenolfo fosse un longobardo e non un franco come, generalmente, si crede. Clericus, molto probabilmente, sta per "uomo di cultura", ma non è escluso che stesse a significare proprio "chierico", cioè "ecclesiastico" nel vero senso della parola. Se Magenolfo fosse stato franco, la sua signoria, in Aquino, avrebbe rappresentato una "parentesi utile" per favorire l'importazione di usi, anche amministrativi, franchi, quali, ad esempio, l'organizzazione del territorio in contee (Grossi 1907: 179). Le devastazioni dei Saraceni non mancarono di colpire lo stesso entroterra laziale e i centri di Aquino, Sora e Arce, già dall'846, quando avevano saccheggiato anche Roma. Queste devastazioni contribuirono senz'altro a favorire il processo di incastellamento e di formazione di poteri signorili (Hirsch, Schipa 1968: 110 - 115). Riguardo le modalità di amministrazione della giustizia da parte dei conti del basso Lazio - funzione che pure doveva essere esercitata visto che è abbondantemente documentata per le altre contee capuane - sussistono non pochi dubbi. La menzione di iudices, nelle carte della contea aquinate, fa chiaramente riferimento all'esistenza di ufficiali comitali deputati all'amministrazione della giustizia nei distretti in cui la contea era ripartita. Resta dubbio, però - e le opinioni in merito divergono - se la designazione dei giudici avvenisse ad opera del conte oppure del principe di Capua. Di Muro propende per la prima ipotesi, Delogu per la seconda. In realtà, in assenza di chiare attestazioni da parte delle fonti disponibili, sembra difficile immaginare le contee come signorie "autonome" dal potere capuano, senza ammettere che i conti potessero liberamente nominare i giudici del proprio distretto. Nelle carte aquinati, infatti, i giudici denominano il conte come senior noster, cioè "nostro signore", un appellativo che, se preso alla lettera, è indicativo dei reali poteri che il conte aveva al di sopra dei suoi subordinati. Come si è detto, nel X sec., gli abati di Montecassino si rivolsero più volte al tribunale del principe di Capua, citando in giudizio i conti di Aquino per rispondere delle usurpazioni compiute ai danni delle terre dell'abbazia. Ma i conti non ritennero doveroso presentarsi. Ritornando ai giudici, se essi fossero stati nominati dal principe non vi sarebbe stato bisogno di far svolgere alcuni placiti presso il tribunale di Capua, alla presenza dello stesso principe e dei giudici capuani, questi sì, da lui nominati (Delogu 1997: 257 - 260, Di Muro 2010: 52, Scandone 1908: 50 - 55). L' "egualitarismo successorio" di molti conti della Langobardìa comportava il fatto che - non essendo privilegiato alcun successore - la contea originaria poteva essere scorporata in più entità comitali, di diversa consistenza ed estensione. Oppure, come nel caso di Aquino, si procedeva alla costituzione, all'interno del perimetro territoriale di ciascuna contea, di una sorta di "baronie-gastaldati", cioè di enclave dotate di un'estensione ristretta rispetto a quella della contea vera e propria in cui erano ricomprese, dotate di una "giurisdizione" in genere subordinata a quella dei centri comitali (Borsari 1961: 25 - 27). 14 Intorno al 1022, al ritorno dalla sfortunata campagna militare, in Puglia, contro i Bizantini, l'imperatore germanico, Enrico II (1003-1024), decise di ricompensare alcuni suoi fideles con la costituzione di una contea. I beneficiari furono i nipoti - Stefano e Pietro - di Melo di Bari, il nobile barese che, alcuni anni prima, aveva innescato il fuoco della rivolta contro Bisanzio che si era propagato per tutta la Puglia. Dopo essere stato sconfitto dagli eserciti imperiali, Melo era fuggito in Germania per sollecitare l'aiuto di Enrico II, ma era morto a Bamberga (1020), prima che il re tedesco iniziasse la sua campagna militare nel Mezzogiorno d'Italia. La campagna, comunque, si risolse in un disastro. La contea istituita da Enrico II in Val di Comino, nel Lazio meridionale, in territorio rientrante nei confini del principato di Capua, è quasi del tutto sconosciuta. Non se ne conoscono i precisi confini, né il capoluogo. Essa, inoltre, fu istituita da un imperatore tedesco, ma nell'ambito di un territorio che non era immediatamente soggetto alla sovranità dell'Impero, perché ricompreso nei confini del principato longobardo Atenolfo di Capua. Probabilmente, Enrico II agì in virtù del dominium eminens che, in quanto imperatore, deteneva sul principato capuano che, almeno formalmente, rientrava nei confini dell'impero germanico. L'origine di questa contea fu decisamente "funzionariale", nel senso che scaturì da una specifica volontà del potere pubblico, ovvero dall'imperatore Enrico II (CMC, I, 61, Di Muro 2010: 63 - 65). Atenolfo meritò anche di essere ricordato nei versi dell'epitaffio scritto, in suo onore, dall'arcivescovo di Salerno, Alfano (1058-1085). Nell'epitaffio Atenolfo era definito comes et dux magnus, magnanimus, sapiens, fortis, pius, impiger, acer (Hirsch, Schipa 1968: 270). Il ridimensionamento della potenza aquinate è suggerito anche dalla documentazione superstite prodotta dalla cancelleria comitale. Mentre nel X e XI sec., i documenti facevano riferimento costante al titolo comitale dei signori aquinati, specificando anche l'estensione geografica dei domini (..de comitatu aquinense..), dopo la conquista normanna questa specificazione scompare - eccetto nei generici riferimenti agli ascendenti - venendo sostituita da un generico richiamo al luogo di residenza dei conti (..Habitator aquinensis civitatis..) (Scandone 1956: 15 - 25). Bibliografia Antonelli D., 1986, Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel Medioevo, Sora. Bloch H., 1986, Monte Cassino in the Middle Ages, 3 voll., Roma. Borsari S.,1962, Atenolfo V di Aquino, in Dizionario Biografico degli italiani, IV, Roma, pp. 35 - 36. Borsari S., 1961, Atenolfo I di Aquino, in Dizionario Biografico degli Italiani, III, Roma, pp. 25 - 27. Cilento N., 1966, Le origini della signoria capuana, Roma. Cilento N., 1981, Poteri e strutture nell'Italia medievale del sud, Salerno. Corradini F., 2004, .. Di Arce in terra di lavoro. Appunti di storia, cronaca, costume, toponomastica e viabilità di un paese della media valle del Liri, 2 voll. Arce. Cuozzo E., 1987, Strutture politico-amministrative nella Langobardia minore, in Montecassino. Dalla prima alla seconda distruzione. Momenti e aspetti di storia cassinese (secc. VI-IX), Atti del II convegno di Studi sul Medioevo Meridionale (Cassino-Montecassino 27-31 maggio 1984), Montecassino, pp. 259 - 274. Delogu P., 1988, Il Ducato di Gaeta dal IX all'XI sec. Istituzioni e società, in Storia del Mezzogiorno, a. c. di G. Galasso - R. Romeo, II, Napoli, pp. 135 - 150. Delogu P., 1997, La giustizia nell'Italia meridionale longobarda, in La giustizia nell'Alto medioevo (secoli IX-XI), a. c. di P. Delogu - P. Peduto, Settimane del Centro Italiano di Studi sull'alto Medioevo, 44, Spoleto 1997, pp. 257 - 265. De Minicis E., 1976, Insediamenti e viabilità lungo il medio corso del Liri. Sora e Vicalvi in età medievale, "Bollettino dell'Istituto di storia e arte del Lazio meridionale", IX, pp. 45 - 60. Di Muro A., 2010, Le contee longobarde e l'origine delle signorie territoriali nel Mezzogiorno, "Archivio Storico per le Province Napoletane", CXXVIII, pp. 1 -69. Di Resta I., 1983, Capua Medievale, Napoli. Di Resta I., 1988, Il principato di Capua, in Storia del Mezzogiorno, a. c. di G. Galasso - R. Romeo, II, Napoli, pp. 135 - 150. Fabiani L., 1950, La terra di S. Benedetto, voll. 2, Montecassino. Fedele P., 1904, Il ducato di Gaeta all'inizio della conquista normanna, "Archivio Storico per le Province napoletane", XXIX, pp. 25 - 40. Figliuolo B., 1992, Longobardi e Normanni, in Storia e civiltà della Campania. Il Medioevo, a. c. di G. Pugliese Carratelli, Napoli, pp. 22 - 67. Figliuolo B., 1991, Morfologia dell'insediamento nell'Italia meridionale in età normanna, "Studi Storici", 32/1, pp. 26 - 35. Fusconi G. M., 1998, Appunti e documentazione per una storia della città e della chiesa Pontis Curvi dalle origini alla fine del Medioevo, Montecassino. Gasparri S., 1988, Il ducato e il principato di Benevento, in Storia del Mezzogiorno, a. c. di G. Galasso - R. Romeo, II, Napoli, pp. 44 - 65. Gattola E., 1733, Historia Abbatiae Cassinensis, voll. 2, Venetiis. Grossi E., 1907, Aquinum, Ricerche di topografia e di storia, Roma. Hirsch F., Schipa M., 1968, La Longobardia meridionale (570-1077). Il Ducato di Benevento e il principato di Salerno, Roma. Indelli T., 2010, Arechi II. Un principe longobardo tra due città, Salerno. Leccisotti T., Aligerno, 1960, in Dizionario Biografico degli Italiani, II, Roma, pp. 65 - 68. Loré V., 2004, Sulle istituzioni nel Mezzogiorno longobardo. Proposta di un modello, "Storica", 29, pp. 30 - 55. Mancini A., 1990, La storia di Atina, Atina. Martin J.M., 1980, Elements prefeodaux dans les principautes de Benevent et de Capoue (fin du VIII siecle - debut du XI siecle): modalites de privatisation du pouvoir, in Structures feodales et feodalisme dans l'Occident mediterranéen (Xe-XIII siecles). Bilan et perspectives de recherche, Rome, in Structures féodales et féodalisme dans l'Occident méditerranéen (X-XIII siècles), in Collection de l'Ecole Francaise de Rome, 44, Rome, pp. 563 - 590. Martin J.M., 2005, Guerres, accords et frontières en Italie méridionale pendant le haut Moyen-Age : Pacta de Liburia, Divisio Principatus, Beneventani et autres actes, in Collection de l'Ecole Francaise de Rome, Rome (Sources et documents d'histoire du Moyen Âge, 7). Poupardin R., 1907, Les Institutions Politiques et Administratives des Principautes Lombardes de l'Italie Meridionale (IXe-XIe Siecles). Etude suivie d'un Catalogue des Actes des Princes de Benevent et de Capoue, Paris. Rossetti G., 1977, Formazione e caratteri delle signorie di castello e dei poteri dei vescovi sulle città nella Langobardìa del X secolo, in Istituzioni e società nella storia d'Italia. Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, a. c. di G. Rossetti, Bologna, pp. 124 -148. Scandone F., 1908, Il gastaldato di Aquino dalla metà del IX secolo alla fine del X, "Archivio Storico per le Province Napoletane", XXXII, pp. 49 - 77. Scandone F., 1956, Roccasecca patria di S. Tommaso de Aquino, "Archivio storico di Terra di Lavoro ", I, pp. 15 - 25. Sennis A., 1994, Potere centrale e forze locali in un territorio di frontiera: la Marsica tra i secoli VIII e XI, "Bullettino dell'Istituto storico italiano per il Medio Evo", 99, pp. 1 - 77. Tabacco G., 1979, Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Torino. Toubert P., 1995, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell'Italia medievale, Torino. Trigona S. L., 2003, Atina e il suo territorio nel Medioevo. Storia e topografia di una città di frontiera, Montecassino. Volpini R., 1975, Placiti del Regnum Italiae (secc. IX-XI), Milano. Fonti Am. HN = Amati Casinensis Historia Normannorum (a. c. di V. de Bartholomeis, Roma 1935 [Fonti per la Storia d'Italia, LXXVI]). CMC = Chronica Monasterii Casinensis (a. c. di H. Hoffmann, Hannover 1984 [Monumenta Germaniae Historica, Scriptores,34]). CV = Chronicon Volturnense (a c. di V. Federici, Roma 1925 [Fonti per la storia d'Italia, Istituto storico per il Medioevo, LVII]). Erch. = Erchemperti Hystoriola Langobardorum Beneventanorum (a. c. di L. A. Berto, Napoli 2014). Paul. HL = Pauli Diaconi Historia Langobardorum (a. c. di L. Capo, Milano 1992 [Fondazione Lorenzo Valla - Scrittori greci e latini]).

Nella gloriosa storia del Casato Atinolfi troviamo anche due abati di Montecassino e due arcivescovi uno di Aversa e uno di Capua. Il primo fu ATENOLFO che si annovera come il 31 Abate di Montecassino che ha ricoperto l'incarico dal 1011 al 1022. Figlio di Pandolfo II, principe di Benevento, nella sua infanzia era stato preso da Ottone II quale ostaggio e custodito in un monastero transalpino. Ne fuggì travestito da monaco: ma, ammalatosi gravemente durante il viaggio, fece voto di non lasciare più l'abito monastico se avesse ottenuto la guarigione. Si ritirò quindi nel monastero di S. Modesto a Benevento, dipendente da quello cassinese, che lasciò, accompagnato dagli arcivescovi di Benevento e di Capua e dal padre, quando i monaci di Montecassino lo richiesero a questi come abate nell'anno 1001.Vir quanto nobilis, tanto humilis et humanus" lo dice il Chronicon: e difatti il suo governo fu ottimo. Atenolfo lui, quasi secondo fondatore, si deve la risurrezione di S. Germano (odierna Cassino), non ancora risollevatasi dalla distruzione saracena; a lui, che un diploma dei principi beneventani definisce "restaurator ecclesiarum", devono pure il loro ristabilimento chiese e monasteri: in Montecassino soprattutto l'abate Atenolfo fece eseguire notevoli opere edilizie ricche di influssi dell'arte nordica; da lui inoltre furono curati trascrizioni di codici. Anche durante il suo governo e alla sua presenza si ebbe il ben noto "placitum castri Argenti" (1014), importante nella storia del diritto e per gli intervenuti al giudizio e per la sentenza pronunciata in base alle leggi romane e longobarde. Atenolfo, inoltre, si preoccupò costantemente di estendere le zone di influenza e i territori dipendenti dal monastero cassinese, ottenendo donazioni sia in Campania, sia in Abruzzo, sia, infine, in Capitanata. Nel febbraio del 1014 era a Roma, ove, in occasione dell'incoronazione di Enrico II, ottenne, sia da questo imperatore sia dal papa, due privilegi di conferma per i beni dell'abbazia. Ma quando, sotto il comando di Basilio Boioannes, le truppe bizantine presero in Puglia di nuovo il sopravvento sui ribelli guidati da Melo, Atenolfo non esitò, insieme col fratello Pandolfo, nuovo principe di Capua, a schierarsi dalla parte dei vincitori. Già nel febbraio dei 1018, otto mesi prima perciò della definitiva vittoria di Canne, il catapano bizantino emanava un privilegio a favore del monastero cassinese. Quando Pandolfo ebbe fatto atto di formale sottomissione all'imperatore d'Oriente, i. rapporti tra i Bizantini e Atenolfo divennero sempre più stretti, tanto da giustificare nel giugno del 1021 la donazione ai Cassinesi dei beni di un Maraldo ribelle in Trani. Dopo la vittoria bizantina su Melo, Atenolfo sfruttò la situazione assoldando parte dei mercenari normanni ormai liberi da impegno, e servendosene per combattere ì conti di Aquino e quelli di Venafro. L'atteggiamento troppo scopertamente filogreco assunto dal 1018 in poi compromise però gravemente la posizione di Atenolfo agli occhi di Enrico II e dello stesso pontefice. Atenolfo, poco dopo il 1014, costruì, davanti alla chiesa, un campanile alto ed ottimo, al cui piano intermedio pose un altare in onore della Santa Croce. Inoltre, accanto all'ingresso della chiesa, a destra e a sinistra di questo, realizzò due ambienti poggianti su colonne marmoree, nelle quali rispettivamente collocò un altare in onore della Trinità ed uno dedicato a San Bartolomeo apostolo (Chron. Cass., ed. H. Hoffmann, II libro, § 26). I lavori furono completati dal successore Teobaldo. Cosicché, quando nel 1022 l'imperatore scese nell'Italia meridionale, un corpo del suo esercito, agli ordini di Pellegrino arcivescovo di Colonia, fu inviato direttamente contro Montecassino e Capua, con il compito di arrestare sia Atenolfo, sia il fratello principe e di sottoporli a processo come traditori. Atenolfo, terrorizzato, tentò di fuggire a Costantinopoli: ma, imbarcatosi ad Otranto, naufragò miseramente con tutti i suoi compagni e con i tesori seco portati, fra cui diplomi e scritture, il 30 marzo del 1022. Il secondo abate Adenolfo che fu il 54 abate di Montecassino dal marzo 1211-agosto 1215 si adoperò perché qui sorgessero altre botteghe di artigiani sarti e venissero ripristinati il valcatorio e il mulino necessari alla locale comunità e anche alla sede principale, confermò i beni concessi dall'abate Raynaldo (1137-1166) e ne aggiunse molti altri trascritti in un diploma 30. Atenolfo o Adenolfo nominato arcivescovo nel 981, nel 986 libera il monastero di San Lorenzo ad septimum di Aversa,fondato con le donazioni della principessa Aloara e di suo figlio Landolfo, dalla giurisdizione degli arcivescovi di Capua. Atenolfo II° Vicario della Chiesa Romana nel 1013, fu eletto arcivescovo di Capua nel 1022. Favorì la riforma del clero e consacrò Leone Vescovo di Atina.


Fonti Bibliografia da cui è stata effettuata la ricerca storica:
Firmato Di Nap. Di V.S. Illustrissima e obbligatissimo devotissimo e obbligatissimo servizio umilissimo lo stampatore. Libro esistente nella biblioteca Lucchesi Palli II° Scala O.S. scaffale 23 Pluteo IV° numero catena 10 ( Trionfo della Grazia divina nel martirio del Santo Apostolo Bartolomeo tragicommedia sagra del Dottor Signor Agnello Polverino Drizzata All' Ill.mo Signore D. Nicolò Tadeo Atenolfo Barone di Castelnuovo Patrizio della città fedelissima della Cava . In Roma per Gaetano Zenobij 1715) Vincenzo Palizzolo , il blasone in Sicilia,raccolta araldica pagina 239 , Visconti & Huber ,1875 , Lucchesi Palli. Manco di Casalgerado , Nobiliario di Sicilia,Beni culturali biblioteca centrale, mango,vacca A. Reber 1912, Lucchesi Palli. La Reunè Hebdomadaire volume 37 edizione 11-12 pagina 460, librairie Plon 1928 Tratto dal Libro " Teatro Genologico delle famiglie Nobili di Sicilia del S. Don Filadelfo Mugnos parte prima edito in Palermo per Pietro Coppola M. DC. XLVII. Pietro Spinelli, Castel Leone di Falerna e la sua spiaggia, in Calabria Letteraria, ottobre-novembre-dicembre 1961, pp. 29-31. Armando Orlando - Giovanni Nicastri, Castiglione e Falerna. Storia di una comunità del Tirreno, prefazione di Gregorio Corigliano, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli, 1986, pp. 192 (22 illustrazioni). Armando Orlando, Storia di Falerna. Dalle origini ai nostri giorni, Edizioni Valle del Savuto, San Mango d'Aquino, 2000 pp. 86 (38 illustrazioni). Armido Cario, Oltre il tempo. Lampi di storia falernese, pubblicato in occasione del 150º anniversario dell'Unità d'Italia e del bicentenario dell'unione comunale, Ma.Per. Editrice, Nocera Terinese, 2011, pp. 64, ISBN 9788890428067. Armido Cario, Falerna, da casale a comune. Dall'occupazione francese al riflusso spagnolo. Società, istituzioni, economia del comune tirrenico (1811-1815), "Il Lametino", n. 20/2005, p. 37. Armido Cario, Castiglione Marittimo, 1725: un pezzo di storia locale ricostruito attraverso la cronaca, "Storicittà", n. 10/2012, ottobre 2012, pp. 52-53. Leonis Marsicani et Petri Diaconi Chronica monasterii Casinensis, in Mon. Ger m Hist., Scriptores, II, 16, 24 n., 38, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, VII, Hannoverae 1846, pp. 640, 643, 647, 653, 654; Desiderii abbatis Casinensis Dialogi de miraculis Sancti Benedicti, II, 22, ibid., XXX, 2, Lipsiae 1934, pp. 1138 s.; P. Cayro, Storia sacra e profana d'Aquino e la sua diocesi, I, Napoli 1808, pp. 52-55; F. Scandone, Per la controversia sul luogo di nascita di s. Tommaso d'Aquino, Napoli 1903, pp. 14, 16 s.; Id., D'Aquino di Capua, tav. III, in P. Litta, Famiglie celebri d'Italia, XVI; Id., La vita, la famiglia e la Patria di s. Tommaso De Aquino, Roma 1924, pp. 43 s.; L. Fabiani, La terra di S. Benedetto, I, Montecassino 1950, p. 61. F. Trinchera, Syllabus Graecarum membranarum, Neapoli 1865, pp. 18, 21; S. Hirsch, Jarbücher des deutschen Reichs unter Heinrich II., III, Leipzig 1875, pp. 149, 150, 156 ss., 197, 199; J. Gay, L'Italie mérid. et l'empire byzantin, Paris 1904, pp. 409, 414, 418, 420, 439; F. Chalandon, Histoire de la domin. normande en Italie et en Sicile, I, Paris 1906, pp. 56, 58-60, 62; M. Schipa, Il mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia, Bari 1923, p. 131; A. Pantoni, Problemi archeologici cassinesi, in Riv. di archeol. cristiana, XIV(1930), p. 184; L. Fabiani, La Terra di S. Benedetto, Monte Cassino 1952, pp. 66 ss. Leonis Marsicani et Petri Diaconi Chronica monasterii Casinensis, a cura di G. Wattenbach, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, VII, Hannoverae 1846, pp. 676, 678, 680, 681, 690, 704; Codex diplomaticus Caietanus, I, Montis Casini 1886, pp. 356 s.; II, ibid. 1891, pp.1 s., 15-17, 25-27 (per Atenolfo II: pp. 41-43, 48-50, 55, 64);.Storia de' Normanni di Amato di Montecassino, a cura di V. de Bartholomacis, Roma 1935, in Fonti per la storia d'Italia, LXXVI, pp. 107 s., 140, 152, 178, 191-193, 201, 259 (per Atenolfo II: pp. 260 s., 265 s., 272, 288, 302, 314, 315, 316); Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a, cura di V. Federici, III, Roma 1938, ibid., LX, p. 86;P. Fedele, Il ducato di Gaeta all'inizio della conquista normanna, in Arch. stor. per le prov. napol., XXIX (1904), pp. 68-92,; Id., Due nuovi docum. gaetani dell'età normanna, ibid., XXXII(1907), pp. 345-448;F. Chalandon, Histoire de la domin. normande en Italie et en Sicile, I, Paris 1907, pp. 109, 135, 145 s., 216 (per Atenolfo II: pp. 216, 216, 219); M. Merores, Gaeta im frühen Mittelalter, Gotha 1911, pp. 37-42.Erchemperti Historia Langobardorum Beneventanorum, a cura di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum, Hannoverae 1878, pp. 256 ss.; Catalogus comitum Capuae, ibid., pp. 499 S.; Poetae Latini aevi Karolini, a cura di P. de Winterfeld, ibid., IV, 1, Berolini 1899, p. 472; Chronicon Salernitanum, a cura di U. Westerbergh, Stockholm 1956, pp. 160 ss.; M. Schipa, Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia, Bari 1923, pp. 103 ss.; N. Cilento, Le condizioni della vita nella contea longobarda di Capua nella seconda metà del IX secolo, in Riv. stor. ital., LXIII (1951), pp. 437 ss.; Id., La cronaca dei conti e dei principi longobardi di Capua..., in Bullett. d. Ist. stor. ital. per il M. E., LXIX (1957), pp. 1 ss, 47-52. Francesco Giunta, "ALAIMO (Alaimus, Alaimu, Alamo) da Lentini (di Latino, di Leontino)", in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. I, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, (on line) Mineo e Bonaviri Mineo Archiviato il 16 febbraio 2012 in Internet Archive. Sicilia - Catania - Mineo - Storia Archiviato il 9 ottobre 2006 in Internet Archive. Inf Mineo Pro Loco Mineo (CT) Archiviato il 13 febbraio 2010 in Internet Archive. Arte " La Città " Comune di Mineo. Fonti e Bibl.: R. Moscati, Per una storia della Sicilia nell'età dei Martini (Appunti e documenti: 1396-1408), Messina 1954, pp. 121, 127; C. Trasselli, G. da Procida, in Id., Note per la storia dei banchi in Sicilia nel XV secolo, II, I banchieri e i loro affari, Palermo 1968, pp. 77-81; F. Giunta, Sull'arcivescovo di Palermo G. da Procida (1400-1411), in Id., L'ultimo medioevo, Roma 1981, pp. 88-94; S. Fodale, L'arcivescovo G. da Procida, in La Fardelliana, I (1982), pp. 25-34; Id., Alunni della perdizione.Chiesa e potere in Sicilia durante il grande scisma (1372-1416), Roma 2008, pp. 459, 522-525, 527, 531-533, 570, 617, 625, 627, 663 s. Archivio di Stato di Napoli, Amministrazione generale della Cassa di ammortizzazione e del Demanio pubblico Demanio Inventario: 35 standard Segnatura: contenitore: 887, unità di descrizione: 16804 Titolo: "Pel marchese Pasquale e Nicola Antinolfi affranco di censo" ed anche in: Note: Pandetta n° 115 bis, carta 570 ter: "Marchese Pasquale e Nicola Antinolfi di Napoli". La Famiglia Giliberti Ammone, imparentata con gli Antinolfi di Solofra, fece acquisto di un feudo il 18 giugno 1799 atto notarile (A.S.A. B 7015, f.70v Storia del Comune di Solofra (AV)). Archivio storico del Comune di Solofra (Avellino). Stemmario Montefuscoli, vol. IV. Parte prima, pag. 191.